L’offensiva neoliberista in America Latina
Fino alla metà degli anni
novanta, il panorama politico latinoamericano evidenziava ancora un netto
predominio delle forze liberiste. Dopo la sconfitta finale del “socialismo
reale” e di tutte le esperienze politico-istituzionali legate a quella sfera,
la dottrina economica dei “Chicago Boys” (gli economisti dell’Università di
Chicago, artefici del dogma del “Libero Mercato”) andava affermandosi in tutto
il mondo senza trovare ostacoli. A partire dagli anni ‘80, l’inoculazione in
massicce dosi di quel programma neoconservatore vide come paesi capofila gli
Stati Uniti di Reagan e la Gran Bretagna della Tatcher e, a seguire, tutti gli
altri Stati - europei e non -
“dipendenti” dal modello economico occidentale.
Nell’America Latina, due
dittature militari su tutte hanno rappresentato l’avanguardia del neoliberismo
con forti legami con la “scuola di pensiero” nordamericana: quella argentina
(1976-1983) e quella cilena (1973-1990). Quindi, lentamente ma implacabilmente,
il “nuovo” ordine liberista andava sostituendosi alle vecchie politiche
keynesiane degli anni ‘50-‘60 (caratterizzate dall’egemonia dello Stato nella
gestione dell’economia nazionale), favorito dalle pressioni esercitate sui
governi da organismi multilaterali come il Fmi, la Banca Mondiale, gli accordi
del Gatt e il Wto.
Gli effetti socioeconomici più
nefasti determinati dall’applicazione di tali politiche furono - e,
disgraziatamente, continuano ad essere - principalmente quattro:
- Aumento rilevante della
disoccupazione, a causa della “deregulation” e dei processi di ristrutturazione
aziendale nel campo dell’impresa pubblica e privata;
- Flessibilizzazione e
precarizzazione del mondo del lavoro, con conseguente perdita di garanzie e
diritti sindacali per i lavoratori;
- Destrutturazione ed
impoverimento del Welfare, per effetto dei tagli alla spesa pubblica nel
settore dei servizi (trasporti, scuola, energia), della previdenza e
dell’assistenza sociale;
- Privatizzazioni selvagge e
scriteriate estese a settori “strategici” delle economie nazionali (come
industria pesante ed aziende energetiche) o alla sanità.
Evidentemente, questa
riconfigurazione del mondo non è avvenuta senza resistenze ed opposizioni da
parte delle popolazioni coinvolte. Una nuova fase del protagonismo popolare
cominciò con l’insurrezione zapatista del 1994, la quale si caratterizzò -
almeno nella sua fase iniziale - più come fenomeno locale che come avanguardia
del risveglio dei movimenti sociali d’opposizione al liberismo. Nella sfera
istituzionale seguì poi l’elezione di Chavez in Venezuela; “il suo impegno
contro le strutture politiche tradizionali, costruite in mezzo secolo di
accordi tra le classi dominanti e la corruzione statale” servì a confermare che
qualcosa di nuovo stava finalmente accadendo.
“Nel gennaio del 1999 il Plan
Real entrò in crisi in Brasile e portò con sé i suoi vicini del Cono Sur - tutti già contaminati dall’instabilità
finanziaria internazionale precedente. Con diverse caratteristiche, forti
manifestazioni di rivolta popolare si svolsero in paesi come l’Ecuador (2000),
l’Argentina (2001) e la Bolivia (2003) provocando la caduta dei governi che
insistevano nell’applicare le dure ricette neoliberiste del “consenso di
Washington” e del Fmi”.*
Parallelamente a questi eventi,
altre mobilitazioni indigene, sindacali e/o popolari ebbero luogo in diversi
paesi con l’intento di porre un freno alla privatizzazione dei servizi (come la
sanità in Salvador) o delle imprese (come l’elettricità in Perù o in Paraguay);
“per impedire lo sfruttamento da parte delle multinazionali dei beni pubblici
(come l’acqua o il gas in Bolivia), per rivendicare i diritti dei popoli
indigeni (in Messico, Ecuador e Bolivia), per protestare contro la fascistizzazione della sfera pubblica
(in Colombia), per rivendicare terre per i contadini (in Paraguay e Brasile),
per impedire l’applicazione dei trattati di libero commercio o per contrastare
il colpo di stato contro un governo che disturba l’imperialismo nordamericano e
le classi dominanti locali (in Venezuela)”.*
Nel segno della continuità con i
movimenti popolari, a partire dal 2000, diverse consultazioni elettorali
assegnarono la vittoria alle sinistre. Il caso più significativo di questa
“svolta” è senza dubbio quello del Brasile che vide il trionfo di Lula da
Silva, leader carismatico del Pt (Partito dei lavoratori), con il sostegno di
una larga coalizione di centro-sinistra comprendente - tra gli altri - anche il
movimento dei contadini “Sem Terra”. Fu poi la volta dell’Ecuador di Lucio Gutierrez,
appoggiato dagli attivisti indios della Conaie, e dell’affermazione in Bolivia
di Evo Morales (candidato del Mas) che, pur perdendo nei confronti del rivale
della destra, fece comunque registrare un risultato storico.
Oggi il quadro delle lotte contro
il sistema neoliberista appare, nel suo complesso, come un puzzle composto da
tante tessere disposte “alla rinfusa”, ognuna di colore diverso e con una
propria specificità. Preoccupa l’assenza di una strategia comune - o meglio -
di un “cemento ideologico” (rappresentato in passato dai nazionalismi e, in
varie forme, dal pensiero marxista) in grado di provvedere all’omogeneizzazione
di tali - e tanti - fenomeni alternativi in tutta l’area subcontinentale
americana.
E’ pur vero che l’avanzata delle
forze progressiste - che in Sudamerica si oppongono, in diversa misura, al
disegno statunitense di espansione dell’ALCA (Accordo di Libero Commercio delle
Americhe) - ha indotto governi “moderati” come Argentina e Paraguay a
schierarsi su posizioni progressiste; ma le prove più impegnative devono essere
ancora affrontate.
Aspettando il responso elettorale
delle presidenziali in Uruguay (dove possono svilupparsi nuove ed interessanti
esperienze), l’unica alternativa praticabile - per ora - si può riassumere in
un’unica parola: resistenza.
(Andrea "Chile" Necciai)
Note:
* “America Latina: un laboratorio
antiliberista” di Gustavo Codas, dirigente della Cut brasiliana e membro della
Segreteria Organizzativa del FSM di Porto Alegre.
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