Il 10 dicembre non sarà a Oslo, a ricevere il premio Nobel per la pace. Nella storia, era successo solo altre tre volte che il vincitore fosse impossibilitato perché in carcere. Dopo quella del tedesco Von Ossietzky (1935), della birmana Aung San Suu Kyi (1991) e del cinese Liu Xiaobo (2010), sarà la sedia vuota dell’iraniana Narges Mohammadi, anche lei in prigione come i suoi tre predecessori, a segnare la celebrazione. « Non potrà uscire dal carcere di Evin», conferma dall’Italia il movimento Donna Vita Libertà, nato sulla scia dello sdegno per la morte, nel settembre 2022, della giovane Mahsa Amina, arrestata e picchiata perché portava male il velo. Narges non potrà volare in Norvegia non solo perché il regime degli ayatollah, a dispetto dell’invito della presidente del Comitato di Oslo, Berit Reiss Andersen, a « prendere la giusta decisione», non sembra avere la minima intenzione di rilasciarla, ma anche perché le sue condizioni di salute sono precarie.
Narges Mohammadi, 51 anni, giornalista, scrittrice, attivista per i diritti umani, arrestata 13 volte e condannata 5 per un totale di 31 anni di carcere e 154 frustate a causa del suo impegno per la libertà del popolo iraniano e in particolare delle donne, soffre di gravi patologie cardiache. Nei giorni scorsi le autorità, dopo ripetuti dinieghi perché la prigioniera rifiutava di coprirsi la testa con il velo, l’hanno trasportata in ospedale, ma dopo alcuni veloci esami l’hanno riportata in carcere. « È in pericolo di vita, la sua stessa esistenza è sotto il ricatto di un regime dispotico che le vieta cure adeguate», dice ad Avvenire Parisa Nazari, attivista del Movimento italoiraniano Donna Vita Libertà.
Alla vigilia della consegna del premio Nobel per la pace, Narges è riuscita comunque a far uscire una sua lettera dal carcere di Evin, a Teheran, che Avvenire ha potuto leggere, in cui si dichiara « profondamente scioccata per il modo in cui il mondo assiste impassibile al massacro e alle esecuzioni del popolo iraniano». La stretta del regime degli ayatollah è impressionante: nei giorni scorsi è stato impiccato l’ottavo manifestante del movimento Donna, Vita, Libertà, Milad Zohrehvand; 24 ore dopo è toccato a un ragazzo di 17 anni. « La macchina delle esecuzioni – scrive Narges – ha accelerato in tutto il Paese (…) È la guerra del regime contro il popolo iraniano oppresso, indifeso e in rivolta».
L’attivista in carcere esprime «grande dolore » per il silenzio del mondo davanti a questa strage: «Che tragica morte è quella nell’oscurità della notte». E poi dalla cella di Evin alza il suo grido: «Chiedo all’Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani di intraprendere un’azione urgente e decisiva in nome dell’umanità per fermare le esecuzioni in Iran ».
Un appello che viene rilanciato dalle attiviste iraniane che nel nostro Paese portano avanti il movimento Donna Vita Libertà: al governo italiano e alla Commissione Europea chiedono di fare pressioni sul regime degli ayatollah perché fermino il boia e perché rilascino la premio Nobel. L‘appello è stato già sottoscritto da Maurizio Landini (Cgil), Elly Schlein (Pd) oltre che dalla Casa internazionale delle Donne e da Amnesty. « Il rifiuto delle autorità iraniane di consentire a Narges di ritirare il premio – dichiara Riccardo Noury, portavoce di Amnesty in Italia - e l’ostinazione con cui la tengono in carcere nonostante le precarie condizioni di salute dovrebbero suscitare scandalo e indignazione a livello mondiale. Ogni giorno in più in carcere è un insulto ai diritti umani e un pericolo per la sua vita».
Su questo fronte si registra una ampia mobilitazione: a quella ormai “storica” di Amnesty, si è aggiunta una petizione di Pen International, l’associazione degli scrittori che annovera la Premio Nobel come membro onorario. Decine di intellettuali – da Salman Rushdie a Arundhati Roy - hanno firmato l’appello perché Teheran consenta alla donna di riunirsi al marito e ai suoi due figli, che non vede da 8 anni, e di volare a Oslo il 10 dicembre «dove il suo lavoro giustamente sarà onorato ».
Ma le speranze sono davvero poche.
Antonella Mariani,
Avvenire 03.12.23