Se siamo vive? Se, pur non andando più in piazza tutti i giorni, noi iraniane e i compagni che resistono al nostro fianco siamo ancora vivi? Certo che lo siamo, la rivoluzione ha cambiato forma ma continua.
L'ultima volta che l'ho toccato con mano è stato mercoledì sera, saranno state le dieci, l'aria era calda, appiccicosa. Dovevo prendere la metropolitana che da Teheran mi riportava a casa, a Karaj, ma ero in ritardo e l'ho persa. Così sono rimasta tre quarti d'ora ad aspettare il treno successivo. E il futuro era lì, sulla banchina. Gruppi colorati di giovani cantavano allegri, tante ragazze come me non indossavano l'hijab, non si respirava paura né tensione, nonostante la repressione continui a decimarci. I mercenari della Repubblica islamica, con il solito sguardo torvo e la mano sullo sfollagente, sorvegliavano la scena a distanza, senza intervenire, quasi rassegnati. E' la nostra nuova dimensione, la messa a terra di "Donna, vita, libertà", la rivoluzione che è uscita dalle piazze e ha invaso il quotidiano. Non saprei quasi più dire bene come fosse fino a un anno fa, prima dell'assassinio di Mahsa Amini e dei giorni della rabbia. Se parlo con le mie amiche, nessuna oggi pensa più che sia possibile tornare indietro, che il regime riesca a rimettere l'hijab a tutte noi, imbavagliandoci di nuovo come se nulla fosse successo. Siamo tante, troppe, siamo come gli uomini e non abbiamo paura di quelli di loro che anziché sostenerci ci minacciano.
Se è troppo presto per cantare vittoria? Lo è. Purtroppo lo è. Il regime ha capito di avere le ore contate e sta rispondendo con l'artiglieria pesante, tanto su fronte esterno che su quello interno. Da una parte ha intrecciato alleanze vecchie e nuove con i peggiori dittatori, a cominciare dalla Cina e dall'Arabia Saudita, per fare fronte comune contro quell'occidente al cui sistema valoriale ci ispiriamo noi, i ribelli. Dall'altra stringe la morsa sugli attivisti. Ci sono arresti ogni giorno, e ci sono condanne a morte. Il caso delle due giornaliste che per prime hanno raccontato la fine di Mahsa Amini, Niloofar Hamedi e Elaheh Mohammadi, è in mano al Tribunale Rivoluzionario e questa è una forzatura giuridica fuori misura perfino per la distorta legislazione della Repubblica islamica che, di norma, affida le procedure contro la stampa ai magistrati ordinari e non chiama a rispondere i cronisti bensì i direttori o gli editori. Niloofar e Elaheh sono simboli, per questo si trovano in stato di detenzione temporanea da quasi otto mesi laddove sarebbero previste al massimo 48 ore. E poi ci sono tutte le altre, violate, accecate, umiliate pubblicamente. E tutti gli altri. Quelli ammazzati, come Majid Kazemi, Saleh Mirhashemi e Saeed Yaghoubi, i tre giovani attivisti impiccati due settimane fa a Isfahan perché giudicati colpevoli di "guerra contro Dio", e prima di loro Mohammad Mehdi Karami, Seyed Mohammad, Mohsen Shekari e Majidreza Rahnavard. E ci sono quelli che aspettano il loro turno sulla forca, come Mohammad Ghobadloo. Ho visto in questi mesi scene che non avrei immaginato possibili, coraggio, violenza, solidarietà, incoscienza, resilienza e poi, nonostante il sangue, noi che andavamo avanti senza cadere e toglievamo l'hijab e continuavamo ad andare avanti. Avevo undici anni nel 2009 e, sebbene bambina, ricordo intorno a me l'entusiasmo, il sospetto, il terrore, la depressione. Ci ho ripensato tanto quando abbiamo cominciato a protestare, alla fine dello scorso settembre, mi chiedevo quanto ci sarebbe voluto perché l'onda ci travolgesse, lo slogan "Donna, vita, libertà" si strozzasse in gola e provassimo quello che avevano provato le nostre sorelle maggiori. L'abbiamo provato ma siamo qui. Da quando non indosso più l'hijab in strada ad ogni passo che faccio avverto lo sguardo della polizia sulle spalle ma non mi volto.
*Mahin,
nome di fantasia di una storia vera raccolta da Francesca Paci su LaStampa