Giocare ai neurologi o agli psichiatri non è passato di moda sui
media e mentre qualche settimana fa, come dadi, si lanciavano diagnosi
casuali ai giovani che stando in casa o fuori sbagliano comunque, questi
ultimi giorni hanno visto un ulteriore livello: sul tavolo sono balzate
le persone negazioniste.
Al diffondersi delle teorie cospirazioniste e del negazionismo della
COVID-19, che hanno conseguenze sulla salute pubblica per il rifiuto di
adottare le misure di sicurezza, hanno dato un rilevante contribuito
un’informazione contraddittoria e selettiva, diversi esperti ottimisti e
tanta propaganda politica antiscientifica.
“Dementi”, “pazzi”, “psicotici” sono solo alcune delle
pseudo-diagnosi affibbiate come insulti a chi nega le conseguenze del
contagio da virus SARS-CoV-2 sulla salute delle persone e sul sistema
sanitario per la necessità di trovare un appiglio nelle incertezze, per
appartenenza a un gruppo o per interessi finanziari e politici.
Si tratta di etichette, assieme ad altre come “cerebroleso”,
“ritardato”, “lobotomizzato”, “schizofrenico”, “autistico”, “bipolare”,
“narcisista”, “psicopatico”, “sociopatico” e così via, che vengono
elargite quotidianamente online e offline a chi abbia idee o
comportamenti considerati non conformi o anormali.
Si ricorre alla neurologia e alla psichiatria per sostanziare il
proprio giudizio morale sull’altro che di volta in volta rappresenta una
minaccia, fa paura, non conosciamo, ha idee diverse dalle nostre o
semplicemente ci sta antipatico. E partecipano al gioco anche
giornalisti/e e – con sprezzo del codice deontologico – molti
professionisti della salute mentale.
Il risultato è una più o meno esplicita dichiarazione di superiorità
che, oltre a rivelare un lessico modesto e avvitato su un ristretto
insieme di aggettivi ricorrenti, ha conseguenze sociali dannose.
In primo luogo, questa modalità di apostrofare l’altro non ne intacca il ragionamento e non ne rivela le fallacie ma spinge a un arroccamento difensivo e all’affiliazione a gruppi che sfruttano, a qualsiasi costo, il senso di vulnerabilità nelle incertezze. Tre bisogni psicologici sottostanno al parteggiare tesi cospirazioniste, come scrive Aleksandra Cichocka, psicologa politica all’Università di Kent, Canterbury, nel Regno Unito: il bisogno di comprendere il mondo, il bisogno di sentirsi al sicuro e il bisogno di sentirsi bene con sé stessi e con il proprio gruppo. Come si può intervenire? Con la prevenzione, il “prebunking” come scrive Cichocka, che si realizza attraverso la trasparenza delle informazioni, la comunicazione di un senso di appartenenza, di identità sociale e di solidarietà e offrendo uno scopo, quello di ridurre con i nostri comportamenti condivisi la trasmissione del virus, il numero di ammalati, il numero di persone morte e di famiglie in lutto, il sovraccarico fisico e psicologico delle operatrici e degli operatori sanitari.
Queste strategie erano già note fin da marzo ma né le istituzioni né i
media generalisti hanno enfatizzato – e continuano a sfrattare – le
misure di prevenzione per la salute fisica, per la salute psicologica e
per un’informazione responsabile che aiuti a gestire la vulnerabilità
delle persone e dell’intera società.
Accade con la pandemia ma la semplificazione delle spiegazioni
attraverso il ricorso al dizionario psicopatologico è un automatismo che
caratterizza anche le modalità con cui sono riportate e commentate le
notizie di cronaca. L’associazione spuria violento-malato di mente
affolla le prime pagine successive a un crimine e punteggia gli
interventi di certi esperti al di là di ogni minima evidenza fattuale.
“In questi casi” affermano Jonathan Metzl e Kenneth MacLeish in un articolo del 2015
che analizza storicamente il ruolo della malattia mentale nella
spiegazione delle sparatorie di massa e nelle politiche restrittive
sull’uso delle armi negli Stati Uniti, “agli operatori della salute
mentale viene chiesto di fornire diagnosi cliniche a problemi sociali ed
economici” mentre “la competenza psichiatrica potrebbe essere meglio
utilizzata” spostando l’attenzione “sulle ansie, sulle formazioni
sociali e economiche” che minano la fiducia tra le persone e tra gruppi
in determinati periodi storici.
Non deve meravigliare se poi cedono alle tentazioni diagnostiche anche i lettori non esperti.
In secondo luogo, l’elargizione di etichette banalizza il complesso
percorso di accertamenti clinici e strumentali che seguono le équipe di
specialisti per giungere a un’interpretazione diagnostica codificata. Si
diffonde così la credenza che le diagnosi neurologiche e psichiatriche
siano facili, immediate, fatte ad occhio e non richiedano una
complessa raccolta di informazioni direttamente dalle fonti e un
accurato processo decisionale. Di conseguenza, la stessa vanità di
alcuni esperti mina, e a lungo termine, la fiducia negli specialisti che
lavorano in scienza e coscienza, a vantaggio dei ciarlatani che
forniscono risposte immediate.
La costruzione e sedimentazione di una cultura scientifica diventa davvero un’azione impervia.
Infine, utilizzare una diagnosi come insulto, danneggia tutte le
persone che sono realmente affette da quella condizione e di cui non
sono responsabili. Oltre a essere offensivo e irrispettoso, questo
automatismo può confondere le conoscenze sulla propria condizione e
spaventare rispetto al proprio futuro e al proprio posto nella società.
Perpetuare lo stigma è un danno a lungo termine che va a peggiorare
la condizione di milioni di persone nella realtà della vita quotidiana.
Lo stigma è l’esclusione sociale, basata sul pregiudizio e sulla
discriminazione, delle persone che affrontano condizioni neurologiche,
psichiatriche, dipendenze, disabilità. Si concretizza nelle difficoltà
ad avere accesso a un’istruzione continua e individualizzata, a ottenere
accettazione nel contesto familiare e sociale, a ricevere un’assistenza
adeguata ai propri bisogni, a trovare e mantenere un lavoro, a
stabilire relazioni significative, a partecipare alle attività di una
comunità.
Contemplare le coloriture attraverso le quali la propria condizione
viene associata a tutti i tipi di misfatti, devianze e crimini,
inevitabilmente accentua il disagio, le preoccupazioni, la vergogna, la
colpa convincendosi che tutto quanto è capitato sia meritato. Questo
processo di solito si propaga al nucleo famigliare o alla ristretta rete
di riferimento. Ne consegue una minore propensione a chiedere aiuto, a
intraprendere percorsi e cure che potrebbero alleviare la propria
condizione o il carico dell’assistenza, a partecipare alla vita sociale,
a rendersi visibili.
La ricaduta nel lungo periodo in termini di costi sociali e sanitari sarà molto più gravosa – basti pensare alle demenze – di quella misurabile in una comunità che riconosce i bisogni individuali e di appartenenza, fornisce con trasparenza i dati di realtà, opera scelte razionali e non respinge la complessità delle condizioni neurologiche e psichiatriche (acute, croniche, degenerative) ma fornisce gli spazi e gli strumenti per una loro migliore comprensione e per un incremento di consapevolezza in tutti i suoi membri.
Se guardiamo a due studi del 2017 che hanno analizzato la copertura
mediatica delle malattie mentali in Canada, ci rendiamo conto che la
situazione può cambiare. Rob Whitley e JiaWei Wang hanno valutato
prima i contenuti televisivi nel triennio 2013-2015, registrando un
incremento dal 10% al 40% dei contenuti positivi con cui è stata
descritta la malattia mentale e una maggiore diffusione di risorse
dedicate, pur restando dominanti le associazioni con i crimini e le
violenze.
Successivamente, i due autori hanno esaminato
i contenuti stigmatizzanti pubblicati sui giornali, nelle edizioni a
stampa e online, rilevandone la riduzione di un terzo tra il 2005 e il
2015. Per Whitley e Wang tali risultati sono la prova di efficacia delle
diverse campagne intraprese per ridurre lo stigma e incrementare la
consapevolezza sulle malattie mentali. In particolare, l’iniziativa
governativa anti-stigma ‘Opening Minds’ della Commissione
canadese sulla salute mentale (Mental Health Commission Canada, MHCC) è
stata “deliberatamente orientata ai media negli ultimi anni, finanziando
la stesura e la diffusione di linee guida, oltre al lavoro con le
scuole di giornalismo e le organizzazioni dei media per sensibilizzare i
giornalisti ai problemi di salute mentale”.
Come dimostra anche la revisione sistematica degli interventi anti-stigma attuati per i professionisti dei media, pubblicata nel 2017
da Alessandra Maiorano dell’Università di Verona a dalle sue
collaboratrici, la copertura delle malattie mentali può essere
migliorata. Dal momento che il ruolo dei media nel rafforzare gli
stereotipi legati ai disturbi mentali è stato ampiamente dimostrato e si
realizza nella rappresentazione negativa delle persone che li
sperimentano, i professionisti dei media costituiscono un target
ottimale per i programmi anti-stigma.
Per Maiorano e collaboratrici, gli interventi più promettenti sono
sia gli approcci educativi che permettono a giornaliste e giornalisti di
entrare in contatto con persone che affrontano i disturbi mentali, sia
le linee guida sviluppate da istituzioni nazionali autorevoli. “Dovrebbe
essere utile promuovere e diffondere interventi educativi mirati ai
giornalisti e includere moduli specifici sui temi di salute mentale nei
curricula formativi di studenti di giornalismo”. Una collaborazione tra
le associazioni dedicate alle diverse condizioni neurologiche e
psichiatriche e le associazioni professionali di giornalisti aiuterebbe a
migliorare le modalità con cui le notizie e le storie pubblicate
affrontano i problemi di salute mentale, “sfidando costantemente lo
stigma strutturale mediato dai mass media”.
In attesa di interventi dedicati, alcune raccomandazioni generali e di semplice applicazione riguardano, in particolare in questo periodo di rischi e prolungate difficoltà: la scelta responsabile delle parole usate per descrivere fenomeni complessi; l’attenzione a riconoscere dignità e rispetto alle persone delle quali non si conosce la vulnerabilità; la copertura di esempi di comportamenti prosociali che, attraverso il rispetto delle regole di sicurezza (mascherina, distanziamento, igiene, aerazione) portano a un minore impatto della pandemia; lo spazio a iniziative di supporto alle persone più esposte all’interno delle comunità.