lunedì 26 marzo 2018

Giustizia per Marielle

Uccisa a Rio Marielle Franco: aveva denunciato gli omicidi nelle favelas

Trentotto anni, la consigliera comunale è stata assassinata con quattro colpi di pistola alla testa.
I sicari hanno anche ucciso il suo autista e ferito lievemente una sua assistente

Marielle era nata e cresciuta alla Maré, il vergognoso benvenuto di Rio de Janeiro per chi sbarca all’aeroporto internazionale. Dietro tristi pannelli, ufficialmente antirumore, e tra i fetori di un mare morto da tempo, vivono 130.000 abitanti in quello che è definito «complesso» di una dozzina di favelas. Il tassista che sfreccia verso gli alberghi sulle spiagge raccomanda finestrini chiusi. Per l’odore nauseabondo e il «non si sa mai».
Veniva da qui Marielle Franco, 38 anni, consigliere comunale, morta ammazzata mercoledì sera a causa della lotta coraggiosa per i diritti della sua gente, povera e di colore come lei. In primo luogo il diritto di non finire ammazzata per mano degli squadroni della polizia. E la sua è stata una vera e propria esecuzione. Sapevano tutto: che lei era in quell’auto, seduta dietro, sono andati a colpo sicuro nonostante la notte e i vetri scuri.
Dalla macchina affiancata al semaforo sono partiti dieci colpi, che hanno ucciso Marielle insieme ad Anderson Gomes, l’autista. In perfetto stile mafioso: tappare una bocca e spaventare le altre.
Era appena uscita da un dibattito pubblico sul tema a lei più caro, la violenza sulle donne nelle aree di rischio, tutto filmato sui social. E alle 21,30, nel mezzo di un’importante partita del Flamengo per la coppa Libertadores, il tam tam della rete ha sconvolto la vita dei tanti abitanti di Rio che la conoscevano e l’avevano votata.
Nel 2016, esordiente in politica, Marielle Franco aveva preso 46.000 preferenze, la quinta più votata alle comunali. Militava in un piccolo partito di sinistra, il Psol, da sempre in prima linea a Rio sul tema dei diritti umani. Con il leader del partito, Marcelo Freixo, Marielle aveva lavorato per anni. A causa delle loro accuse sugli abusi di forza della polizia, qualcuno li definiva «amici dei banditi». Freixo è anche diventato personaggio di un film sulla violenza a Rio che ha fatto il giro del mondo, Tropa de Elite.
Ha dunque il suo primo omicidio eccellente la nuova guerra di Rio de Janeiro, deflagrata dopo i «fasti» dei Mondiali di calcio e delle Olimpiadi. Con la classe politica corrotta spazzata via dai giudici, i narcos e le milizie paramilitari si sono ripresi gli spazi perduti negli anni in cui la città era sotto gli occhi del mondo.
Il governo centrale ha risposto commissariando Rio con i militari, e il governatore è stato esautorato da un generale poche settimane fa. Contro questa misura estrema, possibilmente foriera di altre morti e brutalità nelle favelas, lottava Marielle Franco.
Qualche giorno fa, il suo gruppo politico aveva convocato a Rio i giornalisti stranieri per lanciare una iniziativa di monitoraggio e denuncia sull’intervento dei militari a Rio. Ma chi l’ha uccisa dunque? La polizia corrotta, le milizie, i narcos? In tanti potrebbero aver avuto questo interesse.
Quattro giorni prima di morire Marielle aveva denunciato la morte ingiustificata di due giovani, alla periferia nord di Rio, per mano della polizia. Appena poche ore prima dell’agguato, aveva scritto su Twitter: «Quante altre persone dovranno morire prima che questa guerra finisca?». Soltanto la scorsa notte a Rio sono state ammazzate cinque persone. Tra loro Marielle e Anderson.

Rocco Cotroneo,
Corriere.it del 15 marzo 2018
 
 

 


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"Giustizia per Marielle"


domenica 25 marzo 2018

La guerra dell’acqua, 500 conflitti per conquistarla

I rapporti di Onu e Cia: “Le risorse idriche sono una vera emergenza”
Roberto Giovannini, LaStampa

Per l’acqua si combatte: finora sono documentati dalla Banca Mondiale ben 507 conflitti legati al controllo delle risorse idriche. Tra tanti, l’esempio della guerra civile in Siria, dove secondo molti esperti la sequenza di molti anni di siccità ha certamente contribuito allo scatenarsi della crisi. E di questo passo, in un pianeta sovrappopolato e il cui equilibrio climatico sta cambiando in una direzione sfavorevole, c’è il rischio che per la sempre più strategica acqua si combatterà e si morirà.

Entro il 2030 - lo dicono i dati delle Nazioni Unite -addirittura il 47% della popolazione mondiale vivrà in zone a elevato stress idrico. E perfino la Cia, in un suo documento, ha affermato che «le questioni idriche sono principalmente una questione di stabilità mondiale». Anche se il 70 per cento del pianeta Terra è coperto dall’acqua (di cui in questi giorni ricorre la Giornata mondiale, NdR), di questa risorsa fondamentale per la vita soltanto una parte piccolissima, lo 0,5 per cento, è acqua dolce e potenzialmente utilizzabile per gli umani e per i loro miliardi di animali da allevamento. Per metterci le mani sopra si combatte militarmente, ma anche economicamente: così come da tempo avviene per i terreni agricoli e per le risorse minerarie, già oggi Stati e aziende sono al lavoro per accaparrarsi l’acqua. Sottraendola ad altri Stati o -cosa molto più facile - a comunità locali colpevoli di vivere vicino a una risorsa di valore immenso.

Dopo il land grabbing, dunque, è già suonata l’ora del water grabbing, un neologismo che probabilmente diventerà in futuro di uso sempre più comune. È di questo fenomeno che parla Water grabbing, le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo (EMI editore), un libro firmato da Emanuele Bompan e Marirosa Iannelli. Un fenomeno aggravato dalla crescente domanda di acqua per cibi e prodotti e dalla contemporanea diminuzione della disponibilità provocata dal cambiamento climatico, spiega Bompan, giornalista e collaboratore de La Stampa-Tuttogreen. «Vogliamo sempre più acqua mentre il bicchiere è sempre più vuoto - dice - e le mani che lo reggono si fanno sempre più avide». Già oggi quasi 2 miliardi di persone in tutto il mondo vivono senza acqua potabile sicura, «nonostante ormai da otto anni l’Onu abbia dichiarato il diritto umano all’acqua come primario e indiscutibile», afferma Iannelli, presidente del Water Grabbing Observatory. Una situazione che rischia di peggiorare, visto che non ci sono norme internazionali in grado di mettere la museruola agli appetiti idrici di Stati e multinazionali. Appetiti che qualche benemerita iniziativa di ripubblicizzazione di una risorsa che dovrebbe essere di tutti non riescono a frenare. Mentre paradossalmente si spreca in modo colossale, tra infrastrutture inadeguate e sistemi agricoli e urbani dall’impatto non più sostenibile. E il preziosissimo liquido viene utilizzato senza troppi pensieri per il fracking di gas e petrolio, che spesso porta a un inquinamento delle falde, o per la produzione di energia elettrica. Il prezzo del water grabbing, intanto, lo pagano i più deboli. Il libro racconta le conseguenze umane della costruzioni di monumentali dighe, come quella delle Tre Gole in Cina, che ha comportato il trasferimento forzato di 1,2 milioni di persone, o quella Gibe III in Etiopia, che ha sconvolto la vita di 400 mila poverissimi Oromo. O indirettamente: sono i più poveri ad essere travolti dai conflitti militari e dalle tensioni politiche. In Siria, ma anche tra India e Cina per il controllo del fiume Brahmaputra, tra Autorità palestinese e governo israeliano, tra Cina, Vietnam, Laos e Cambogia per il controllo del Mekong.
E l’Italia? I numeri dicono che le riserve idriche si sono dimezzate in appena sette anni. Siamo davvero convinti di non essere coinvolti?

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La sfida globale perché sia un diritto per tutti
Michel Temer
(Presidente della Repubblica Federativa del Brasile)

L’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici di base - tra gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite e condizione per la vita umana - è un diritto. Eppure 2 miliardi di persone nel mondo sono prive di una fonte d’acqua sicura in casa; circa 260 milioni, più dell’intera popolazione brasiliana, devono camminare più di mezz’ora per raggiungerla e 2,3 miliardi hanno carenza di servizi igienici. Garantire l’accesso a questo bene è una delle principali sfide del nostro tempo.

In Brasile si concentra il 12% dell’acqua dolce del pianeta, eppure non siamo immuni dai problemi relativi all’acqua. Le grandi città hanno affrontato la mancanza di approvvigionamento, ma persiste l’inaccettabile carenza di servizi igienico-sanitari. È nota la sofferenza che le siccità causano nel Nordest brasiliano. Per rispondere a tali pressanti domande ospitiamo in questi giorni a Brasilia l’ottavo Forum Mondiale dell’Acqua, con più di 40 mila partecipanti provenienti da oltre 160 Paesi. Sono presenti capi di Stato e di governo, governatori e sindaci, parlamentari e magistrati, rappresentanti di organizzazioni internazionali e del mondo accademico, del settore privato e della società civile. Una diversità di attori che arricchisce il Forum. La scelta del Brasile come Paese ospitante del più importante evento globale sulle risorse idriche non stupisce. Abbiamo già ospitato Rio 92 e Rio +20, in cui si è sottolineato lo stretto rapporto tra sostenibilità idrica e sviluppo.

Più di recente, siamo stati tra i primi a ratificare l’Accordo di Parigi su una delle principali minacce al diritto all’acqua: il cambiamento climatico. Questo tradizionale protagonismo estero è ancorato a misure concrete sul piano interno. Il Brasile è consapevole che acqua e servizi igienico-sanitari sono sinonimi di preservazione ambientale e noi abbiamo fatto della sicurezza idrica il pilastro delle nostre politiche per l’ambiente.
Per preservare i corsi d’acqua, abbiamo implementato il programma «Piantatori di fiumi», con l’impiego di strumenti digitali nella difesa delle sorgenti e delle aree di preservazione permanente. Abbiamo fatto grandi progressi anche nella protezione delle foreste, ampliando le aree di conservazione e invertendo la curva della deforestazione in Amazzonia, in precedenza in ascesa. E stiamo per creare due vaste aree di tutela della biodiversità marina. È così, proteggendo gli ecosistemi, che proteggeremo le nostre fonti d’acqua.

Avere acqua è essenziale, ma non sufficiente. È necessario che essa raggiunga chi ne ha bisogno. Proprio di questo tratta un antico progetto, la trasposizione del fiume São Francisco, che stiamo ultimando a beneficio di 12 milioni di abitanti del Nordest. Già concluso l’asse che porta acqua in Pernambuco e Paraíba, siamo ora nella fase finale del tratto che raggiungerà il Ceará.

Nel contempo, non trascuriamo la sostenibilità: abbiamo lanciato il progetto «Novo Chico», teso alla rivitalizzazione del fiume São Francisco. Quanto ai servizi igienico-sanitari, stiamo concludendo un progetto di legge teso a modernizzare il quadro normativo del settore e incoraggiare nuovi investimenti. A spingerci è la ricerca per l’universalizzazione di questo servizio di base.

Questo è il Brasile che ospita il Forum Mondiale dell’Acqua: un Brasile in cerca di soluzioni comuni per problemi globali, che fa e continuerà a fare la propria parte per preservare la nostra risorsa naturale più preziosa.

sabato 17 marzo 2018

Microplastica nelle bottiglie d’acqua, allarme contaminazione

Tracce di microplastiche sono state trovate nell’acqua in bottiglia di oltre il 90 per cento dei marchi più diffusi. A rivelarlo è uno studio dell’Organizzazione mondiale della sanità secondo la quale i livelli di plastica nelle bottiglie sono circa il doppio di quelli che si trovano nell’acqua del rubinetto.
L’analisi è stata condotta su 259 bottiglie 11 marchi diversi di 9 paesi del mondo, e in media sono state trovate 325 particelle di plastica per ogni litro di acqua venduta. Lo studio arriva in seguito a un’inchiesta dell’organizzazione giornalistica Orb Media.
Delle 259 bottiglie testate, solo 17 erano prive di plastica. Le analisi sono state condotte dall’Università di Fredonia, negli Stati Uniti.
Gli scienziati che hanno lavorato al rapporto hanno dichiarato di aver trovato circa il doppio delle particelle di plastica nell’acqua in bottiglia rispetto a un precedente studio sull’acqua del rubinetto.

Secondo il nuovo studio, il tipo più comune di frammento di plastica trovato era il polipropilene, lo stesso tipo di plastica utilizzato per realizzare i tappi di bottiglia. Le bottiglie analizzate sono state acquistate negli Stati Uniti, Cina, Brasile, India, Indonesia, Messico, Libano, Kenya e Tailandia.
Gli scienziati hanno usato il colorante rosso Nilo per fluidificare le particelle nell’acqua. Questo colorante tende ad aderire alla superficie della plastica ma non alla maggior parte dei materiali naturali.
Lo studio non è stato pubblicato su una rivista e non è stato sottoposto a una peer review scientifica.
I marchi analizzati sono Aqua (Danone), Aquafina (PepsiCo), Bisleri (Bisleri International), Dasani (Coca-Cola), Epura (PepsiCo), Evian (Danone), Gerolsteiner (Gerolsteiner Brunnen), Minalba (Grupo Edson Queiroz), Nestlé Pure Life (Nestlé), San Pellegrino (Nestlé) e Wahaha (Hangzhou Wahaha Group).

“Le microfibre di plastica sono facilmente presenti nell’aria. Chiaramente ciò si sta verificando non solo all’esterno ma all’interno delle fabbriche”, hanno detto gli scienziati.
Il problema delle microplastiche è diventato allarmante e più grave di quanto ipotizzato. Jacqueline Savitz, del gruppo di ricerca Oceana, ha dichiarato: “Sappiamo che la plastica si sta formando negli animali marini e questo significa che anche noi siamo esposti”.
Nestlé ha criticato la metodologia dello studio, affermando in una dichiarazione alla CBC che la tecnica che usa la colorazione rossa del Nilo potrebbe “generare falsi positivi”.
La Coca-Cola ha detto alla BBC di avere metodi di filtrazione rigorosi, ma ha riconosciuto l’ubiquità delle materie plastiche nell’ambiente, il che significa che le fibre di plastica “possono essere trovate a livelli minimi anche in prodotti altamente trattati”.
Un portavoce della Gerolsteiner ha affermato che anche la società non può escludere che la plastica entri nell’acqua imbottigliata da fonti aeree o da processi di imballaggio. Il portavoce ha dichiarato che le concentrazioni di materie plastiche in acqua derivanti dalle proprie analisi erano inferiori a quelle consentite nei prodotti farmaceutici.

giovedì 15 marzo 2018

Cumhuriyet, per ora niente lieto fine

Cumhuriyet” [Repubblica, NdR] è il più antico quotidiano turco ancora in circolazione, fondato nel 1924. Il direttore e alcuni giornalisti sono stati arrestati nel 2015 e rilasciati nel 2016. Il direttore dell’edizione online è stato arrestato nel 2017 per un’inchiesta sulla morte sospetta di un procuratore capo. Lo hanno seguito in carcere altri giornalisti del quotidiano, come ricorda Can Dündar in questo articolo.


Il film “The Post" fa pensare al destino del giornale “Cumhuriyet”.
Quando nel nuovo film di Steven Spielberg ho visto quello che accadde al “Washington Post”, allorché fece conoscere come il governo USA aveva ingannato il popolo sulla guerra del Vietnam, ho pensato involontariamente al mio giornale “Cumhuriyet”, quando scoperchiò le bugie del governo turco a proposito della fornitura di armi in Siria. Quello che i miei colleghi vissero al “Washington Post”, una generazione fa, lo stiamo vivendo noi oggi alla stessa maniera.
In che modo sfacciato i governi si nascondano dietro la scusa del “segreto di stato” per celare le loro menzogne lo si può vedere in due scene. Quando Nixon nello studio ovale urla: “Quello che fanno questi giornalisti è alto tradimento! Bloccate le pubblicazioni, avviate le indagini!”, vediamo un politico che oggi ispira Erdogan. La somiglianza dei pubblici ministeri americani, che minacciano di arrestare il redattore capo del “Post”, coi pubblici ministeri turchi che ci hanno messo in carcere e ci volevano tenere per tutta la vita dietro le sbarre, ci è di ammonimento.
Quando vediamo come i giornalisti, nonostante le pressioni, le minacce e i rischi, si impegnino al servizio della verità e difendano i loro resoconti, noi pensiamo ai nostri colleghi che oggi conducono la lotta per la verità sottoposti a una massiccia pressione. Noi sappiamo che la persecuzione è una parte inevitabile, necessaria della lotta per la libertà di parola, che viene condotta da centinaia d’anni.
E’ naturale che tra il caso del “Washington Post” e del “Cumhuriyet”, accanto a molte somiglianze, ci siano anche notevoli differenze: il nostro film non è ancora arrivato al lieto fine del “Post”.
A questo proposito due sono gli elementi interessanti: il primo è che in Turchia non ci sono più giudici indipendenti che possano firmare un verdetto in cui si stabilisce il principio che “la stampa non serve a coloro che governano, ma a coloro che sono governati”. Se la Giustizia statunitense degli anni Settanta fosse stata agli ordini del governo, come oggi accade in Turchia, la storia sarebbe stata scritta in modo diverso. Questa è la prova più importante del fatto che senza uno stato di diritto e la divisione dei poteri non può esserci alcuna libertà di stampa.
La seconda differenza consiste nel fatto che la solidarietà, che gli altri media americani dimostrarono al “Washington Post”, non si è manifestata per il “Cumhuriyet”. Al contrario, l’attacco principale è venuto proprio dai media “al servizio di coloro che governano”. Questo spiega perché Erdogan, prima della presidenza, decise di diventare patron dei media. Come si spiega anche con gli attuali attacchi di Trump contro i media.
A un’altra cosa ancora fa pensare il film “The Post-L’editrice”(*): il “Cumhuriyet” viene pubblicato da una fondazione indipendente. Esso non ha, quindi, un capo. Di conseguenza anche gli “amici del capo” non hanno possibilità alcuna di intervenire nella politica editoriale del giornale. Il film dimostra una volta di più che l’indipendenza dei media è così fondamentale che non può essere lasciata alla benevolenza dell’editore.
I “Pentagon Papers” prepararono la fine di un governo che mentiva al popolo, e consolidarono la fama di un giornale che scoperchiò la verità. Il “Cumhuriyet”, invece, è oggi un giornale, la cui dirigenza è in prigione, perché ha smascherato un governo che mentisce al popolo..
Comunque, non c’è menzogna che viva più a lungo della verità.
La storia della stampa presenta centinaia di esempi a favore del fatto che sono i difensori della verità, alla fin fine, a eliminare coloro che cercano di occultarla.
Ed è giusto che sia così.




Can Dündar,
Die Zeit” 8/2018 del 14 febbraio 2018


(*) “L’editrice” [“Die Verlegerin”] è il titolo con cui è uscito in Germania il film “The Post”, che in Italia ha mantenuto il titolo originale.

giovedì 8 marzo 2018

[Iran] otto marzo


Cara mamma,
Ora che ti scrivo questa lettere mancano poche ore all'8 marzo. Tra qualche giorno ci sarà anche la giornata nazionale della mamma, qui. Quest’anno non ci sei e io ti penso più che mai!
Mamma, ti ricordi quando ero piccola e ti compravo sempre dei regali per la giornata della mamma? Una volta comprai un bellissimo velo rosso. Ero così felice e fiera… ti piaceva tanto. Ancora oggi penso che il rosso sia il colore giusto per te, ma ora so che non dovevo regalarti un velo! Nessuno regala a una colomba, una gabbia. Nessuna donna merita di ricevere un velo come regalo. Nessuna donna merita di dover portare il velo!

Mamma, ricordi quell’anno che ti avevo comprato un libro di ricette per la festa della mamma? Pensavo che ti avrebbe fatto felice. E ti ha fatto veramente felice. Non capisco perché invece di regalarti questo libro, non ho deciso di cucinare per te per un giorno, una settimana, per tutta la vita!
 
Mamma! Oggi è il nostro giorno e io mi accorgo che pure il nostro rapporto ha un colore maschile, che il mio amore per te era tutto maschile. Non mi hai insegnato come trattarti da donna perché nemmeno tu sapevi come dovevi essere trattata. Oggi io so che meritavi di più, che meriti di più, che meritiamo di più. E sai, mamma, non sono da sola! 

Oggi non ho nessun regalo per te, mamma; solo un “perdonami”. Proverò con tutta me stessa ad amarti da donna, come donna. E tu promettimi che sarai sempre prima una donna e poi, la mia mamma...

Ti voglio bene mamma
 

Tua
JASS


La strage degli ulivi e l’affaire Xylella




La Commissione europea ha usato due pesi e due misure, con la complicità delle istituzioni nazionali che non hanno avuto nulla da obiettare, per la gestione di organismi nocivi da quarantena? Dalla lettura dei dispositivi europei emanati sembrerebbe di sì.

Cerchiamo di analizzare questi documenti. Nel 2015, a distanza di poche settimane l’una dall’altra, la Commissione europea ha emanato due Decisioni di esecuzione, la 789/2015 e la 893/2015, per due organismi nocivi inseriti entrambi in Lista Eppo 1 (la lista degli organismi da quarantena), Xylella Fastidiosa (riscontrato in Salento) e Anoplophora Glabripennis (riscontrato in Lombardia). Entrambi sono considerati organismi da quarantena, ma la Commissione ha deciso di trattarli in maniera diversa per quanto riguarda le eradicazioni.

Per la Xylella è stato imposto, anche con l’uso della forza pubblica, di procedere con lo sradicamento di tutte le piante “potenzialmente ospiti”, solo con esami visivi e con delle supposizioni degli ispettori fitosanitari, senza esami analitici nel raggio di cento metri intorno alla pianta dichiarata infetta in fascia di contenimento.
Per l’altro organismo nocivo, invece, è stato concesso di andare in deroga all’abbattimento delle piante “per motivi connessi al particolare valore sociale culturale o ambientale”! Chiaro? La Commissione prevede che per il patogeno trovato in Lombardia, l’Anoplophora Glabripennis, si può andare in deroga agli abbattimenti, non come sta accadendo in questi giorni nel brindisino, precisamente a Cisternino, dove invece si impone il taglio indiscriminato delle piante ritenute potenzialmente ospiti.

Tutte e due le risoluzioni portano la stessa firma, il Commissario europeo Vytenis Andriukaitis (per approfondire suggeriamo l’articolo del professor Luigi Cerciello Renna dal titolo Xylella, l’arretramento giuridico dell’Europa nella tutela del paesaggi).

ARTICOLI CORRELATI

Sorvoliamo su quanto abbiamo ripetutamente scritto – e per il quale abbiamo ricevuto in questi anni offese, ritorsioni o ‘messaggi particolari’ (ma rassegnatevi, perché perdete solo tempo; piuttosto non nascondetevi e rispondete ai nostri rilievi) – a proposito della mancanza dei dati epidemiologici (con prove di laboratorio che certifichino la presenza di una epidemia da xylella, da non confondere con il Co.di.r.o., Complesso del Disseccamento Rapido dell'Olivo) sulle vere cause dei disseccamenti in zona infetta, batterio oppure verticillium o altro.
Sorvoliamo sulle parole pronunciate dall’allora procuratore capo Cataldo Motta (“L’Unione europea è stata tratta in inganno con una falsa rappresentazione dell’emergenza xylella fastidiosa, basata su dati impropri e sull’inesistenza di un reale nesso di causalità tra il batterio e il disseccamento degli ulivi”).
Sorvoliamo sulle forti contestazioni allo studio di Efsa che dimostrerebbe il nesso causa/effetto xylella con disseccamento olivi (mancanza di peer-review indipendente ed approvata dalla comunità scientifica internazionale).

Quello su cui non si può sorvolare è che nel frattempo Xylella Fastidiosa è passata da Lista Eppo 1 (come era nel 2015), a Lista Eppo 2, ma è sempre soggetta agli stessi decreti legge nazionali e le stesse decisioni. Quindi le eradicazioni vengono imposte, per un aspetto prettamente burocratico. Ma mentre in Lombardia o nelle altre zone in cui è stato riscontrato il patogeno Anoplophora Glabripennis i proprietari di alberi (che hanno un valore paesaggistico e sociale) possono salvare le loro piante senza grossi problemi, a Ostuni e Cisternino sono costretti invece a ricorrere al Tar (e a sopportare anche pressioni e spese). Questo per le rispettive fasce di contenimento.

A questo punto non ci possono più essere alibi per nessuno, né per le associazioni di categoria, spesso cieche e sorde di fronte a queste palesi contraddizioni, né per quegli agronomi collusi con le stesse associazioni e con le baronìe universitarie, né per quei giornalisti appiattiti su un’impostazione che traballa sempre più, né per la maggior parte dei politici locali che fanno finta di non capire rendendosi tutti complici di queste scelleratezze.
Xylella è un problema di politica economica e di riconversione agricola che si vuole imporre, senza se e senza ma, al nostro territorio? Questa è la domanda cui tutti dovrebbero dare risposte.

Un’altra riflessione da fare è legata ad una incredibile variabile di questa storiella: il vettore, la famigerata Philaenus spumarius comunemente conosciuta come ‘sputacchina‘.
In questi anni ne abbiamo sentite di tutti i colori (in tutti i sensi): “Se andate in Salento tenete i finestrini delle automobili ben chiusi per evitare che gli insetti saltino all’interno e vengano così trasportati in altri luoghi” – disse un ricercatore barese; oppure ”un insettuccio polifago grande meno di mezzo centimetro, che di suo non si sposta più di cento metri, ma ha una predilezione per i colori intensi, si attacca spesso alle automobili con le carrozzerie metallizzate e per questo motivo è stato definito “autostoppista”; ma anche “Xylella, nessun rischio nel Barese. Gli esperti: ‘Occhio ai viaggi in auto’, l’insetto infatti, attratto anche dai colori chiari, nonostante le piccolissime dimensioni, potrebbe saltare fin dentro il veicolo, usufruendo di ‘passaggi’ indesiderati”.
Tenendo presente come sta andando avanti la storiella dell'”avanzata inesorabile del batterio” – che sembra si sposti alla media costante di circa trenta chilometri all’ anno (da Gallipoli 2013 a Cisternino 2018), salvo poi fare incredibili salti di diversi chilometri come nel caso dei focolai puntiformi che sarebbero stati ritrovati a Ceglie Messapico o Cisternino in aperta campagna distanti molti chilometri da Oria, cioè dal punto più a nord della cosiddetta ‘zona infetta’ (super sputacchina?) – fosse vero tutto quello che ci hanno sempre raccontato, possibile che mai nessuna sputacchina sia riuscita, in oltre quattro anni, ad imbarcarsi su di un’auto dai “colori intensi” o “chiari” o multicolor per farsi un bel viaggetto fino a Bari, Foggia, Pescara o Toscana?
Più che una variabile aleatoria la sputacchina appare così una costante prevedibile, un po’ come le dichiarazioni a rate di certi pentiti.

Durante il consiglio comunale aperto tenuto a Cisternino alcuni giorni fa sul problema eradicazioni, è emerso che la positività dei tre olivi sarebbe stata riscontrata a settembre 2017, ma la notifica dei decreti di eradicazione è avvenuta a febbraio 2018, cioè dopo oltre cinque mesi. Stiamo parlando di un intervento fortemente invasivo: per ogni olivo infetto infatti dovranno essere sradicate tutte le piante potenzialmente ospiti nel raggio di cento metri intorno, cioè presenti in un’area di oltre tre ettari.
Si presume possano esserci circa centocinquanta/duecento piante da sradicare intorno ad ogni olivo dichiarato infetto.
Ora, supponendo fosse tutto vero quello che ci hanno raccontato finora, soprattutto sull’ineluttabilità e tempestività degli interventi per “fermare l’avanzata inesorabile del temibile batterio”, com’è possibile un simile ritardo quando poi la Decisione 789 impone che il proprietario sia “immediatamente informato della presenza o sospetta presenza dell’organismo specificato” e “lo Stato membro deve rimuovere immediatamente nel raggio di cento metri … le piante ospiti … le piante notoriamente infette..le piante che presentano sintomi indicativi…”?

Stiamo affrontando una finta emergenza, o una vera farsa?


Crocifisso Aloisi
*consigliere comunale nel Comune di Galatone (Lecce).
Ha aderito alla campagna Un mondo nuovo comincia da qui

(Fonte: Comune-info)

martedì 6 marzo 2018

[Iran] la fontana



Una vecchissima signora, credo abbia 90 anni, sale sul muretto della fontana (?) con molta fatica e si toglie il velo.
E lo sventola come fanno le ragazze della strada #Enghelab !


Ora la Fontana è così.
Succede -non nel medioevo ma nel 2018.
Tehran, IRAN


 



   
JASS.


sabato 3 marzo 2018

[Iran] Sono una delle ragazze di #Enghelab

WhiteWednesday: una manifestante

Dopo 30 anni di vita, solo recentemente sono venuta a conoscenza di alcuni miei diritti di donna, anche se possono essere definiti come diritti di ogni essere vivente, ma qui, in Iran, i diritti umani sono solo per gli uomini e i diritti per le donne sono sotto un’altra categoria.
Comunque non è di questo che voglio parlare (almeno non questa volta, per vostra fortuna)!

Io, da piccola, pensavo che il mio diritto di donna, dopo i 18 anni, sarebbe stato il permesso di cambiare la ricetta del brodo della bisnonna e non metterci più i piselli. Anche se i piselli ci sono ancora e dopo aver letto il libro “Ingoia il Rospo” li ingoio senza dire niente. Spero però di trovare il coraggio necessario per poterli almeno mettere da parte nel piatto, uno di questi giorni.
Devo confessare che l’arrivo delle parabole e dei canali satellitari, è stato un aiuto enorme alla mia trasformazione esistenziale e a quella di tante altre ragazze/donne iraniane.
Perché prima vedevamo solo le nostre mamme, zie, nonne. Tutte uguali, tutte sposate, tutte obbedienti e spesso incinte.
Ma avendo avuto accesso ai canali turchi e, anni dopo, a quelli europei, riuscimmo a vedere un mondo diverso dal nostro. Vedemmo le donne “vere”. Quelle belle, bionde, truccate, sexy, libere e felici.

Raggiunti i 18 anni, capii che i miei diritti erano decisamente superiori a quelli che pensavo.
Fino a quell’età, non avevo mai comprato gli occhiali da sole perché a mio padre non piacevano. Diceva che solo le “poco di buono” mettevano gli occhiali da sole e che era un modo per far capire agli uomini “poco di buono” che erano disponibili. Poi, in TV, vidi che, nel mondo, c’erano persino delle donne che compravano gli occhiali e li mettevano sui capelli mentre guidavano: straordinario!
Quando mi accorsi che avevo il diritto di comprarmi gli occhiali e metterli, anche fuori casa, fiera di questa scoperta che mi avrebbe cambiato la vita, feci un minuto di standing ovation per me stessa.

Però devo dire che la svolta ci fu con i miei 21 anni, quelli che ricordo come pietra miliare della mia esistenza. Ero seduta con delle amiche sulle panchine fuori dall’università, tutte con i nostri occhiali da sole e un bicchiere di thè tra le mani, per scaldarci, quando venne una nostra amica molto trasgressiva e coraggiosa. Aveva una bibita colorata – di quelle senza zucchero che bevevano le donne fighe in TV – e disse con molto orgoglio: “Sapete che anche noi abbiamo il diritto di tornare a casa dopo il tramonto?”. Noi tutte pensammo che ci volesse solo prendere in giro: “Bugiarda! Mica siamo maschi!”. Lei però continuò seriamente: “Io torno a casa verso le 8, solo poche ore prima di mio fratello perché questo è un mio diritto”.
Pensai tra me e me: “Rivoluzionaria!! Ma di sicuro ci vuole far fare una brutta figura davanti ai nostri genitori con questo scherzetto…”. Ma lei mise i suoi occhiali sul velo e disse: “Questa è la verità, sfigate! Noi abbiamo quasi gli stessi diritti dei nostri fratelli”.
“Allora non sta scherzando! Chissà quant’è bello passeggiare da sola per le strade e guardare le vetrine” pensai con un velo di tristezza.
Quanto avrei voluto essere come lei.
La stessa sera decisi di comunicare alla mia famiglia questo mio nuovo diritto. Mentre cenavamo dissi: “Io ho il diritto di tornare a casa dopo il tramonto”.
Tutti si interruppero, mi guardarono con stupore, poi ripresero a mangiare, pensando che fosse solo una delle mie battute. Mio padre disse: “Passami l’acqua: ti ho detto mille volte che le donne non raccontano barzellette”. Gli risposi: “Padre, hai sentito cosa ho detto? È un mio diritto!”.
Lui sussurrò a mia madre: “Ha trovato il codice di quei canali lì?”. Mia madre arrossì e mi guardò con rabbia e mi fece capire con il movimento degli occhi e le sopracciglia, che dovevo stare zitta.
Rimasi zitta, per anni, ma rimasi convinta che c’era qualcosa di giusto in quello che avevo detto. E poi, di quali canali parlava mio padre?


A 26 anni, sentii una cosa che mi fece fissare il muro della mia stanza per 5 ore.
Non riuscivo a gestire tutti i pensieri e le sensazioni che bombardavano la mia esistenza: “Le donne hanno il diritto di viaggiare da sole come gli uomini”.
Pure adesso, a 30 anni, mentre lo scrivo, mentre lo penso, mi sento svenire da quanto mi suona folle e incredibilmente piacevole sapere di avere questo diritto.
Trovo così coraggiose le donne straniere che viaggiano da sole senza chiedere il permesso scritto di un loro parente maschio!
“Quanto vorrei essere come loro. Che ingiustizia essere nata qui!”.
Ma mi feci una promessa: “Prima di morire farò tutto quello che non mi hanno mai permesso di fare perché sono nata femmina e perché, per loro, sono una creatura inferiore e incapace di intendere e volere”.

Ho 30 anni. Poche settimane fa ci sono state proteste contro il regime totalitario in Iran, contro discriminazione, corruzione, povertà, censura. Stavamo cenando e al telegiornale parlavano delle ragazze arrestate per le strade della capitale, perché si erano tolte il velo dicendo che era un loro diritto scegliere il proprio abbigliamento. Mio padre arrabbiato commentava: “Svergognate! Vorrebbero pure il diritto di vivere da sole senza essersi sposate”.
Oh! Sarebbe bello! Perché non ci ho pensato prima? Dissi: “Non è che ho pure questo diritto e non me lo avete detto?”. Mio padre, nervoso, tossì e mia madre cambiò argomento: “Mangia i piselli e stai zitta”…
… No! Non è andata così! Avrebbe potuto, ma non è andata così!

Per tanti anni non ho saputo di avere dei diritti.
Ora ho 30 anni e so di avere dei diritti e lotto per averli.
Io sono una delle ragazze di #Enghelab .
Io tolgo il mio velo perché questo è un mio diritto.




 JASS.
(
articolo pubblicato su syndromemagazine.com)