Haiti, la terra
maledetta
Dalla
schiavitù al terremoto: una catastrofe umanitaria che viene da lontano
Pur
trattandosi di una calamità naturale e dunque molto difficile da prevedere, l’immane
tragedia del terremoto deve far aprire gli occhi sulla distinzione tra ciò che
è accaduto “fatalmente” e ciò che invece è stato “deliberatamente” inflitto ad
Haiti e al suo popolo, sin dal principio della sua storia. A distanza di un
mese dal sisma, gli aiuti umanitari raccolti fin qui grazie alla solidarietà
internazionale basteranno appena ad alleviare le sofferenze di una popolazione
già fortemente provata da cinque secoli di sfruttamento economico e da ogni
sorta di barbarie.
Già molto prima del terremoto, Haiti era uno dei paesi più poveri al mondo (e tra i più turbolenti). Nel 1804 gli schiavi dell’isola dei Carabi sconfissero i loro padroni francesi in quella che passò alla storia come la prima rivoluzione schiavista coronata da successo. Il prezzo della libertà fu però molto salato. Haiti si vide infatti costretta a pagare agli ex padroni lauti “indennizzi”, non ancora del tutto estinti. Da lì nacque ciò che costituisce, ad oggi, un pesante fardello per l’intera cittadinanza haitiana: il suo debito estero.
Passò un secolo e il giovane paese indipendente conobbe dei nuovi padroni. Era il 1915 quando gli Stati Uniti invasero Haiti “fondamentalmente per aprirla alla proprietà straniera degli affari locali. Nel 1934, dopo diciannove anni di occupazione, i nordamericani cominciarono ad appoggiare una serie di dittature sanguinarie con lo scopo di proteggere le loro proprietà. Cosa che hanno continuato a fare fino ai nostri giorni.” *
Come nel caso del Nicaragua dei Somoza, una vera e propria dinastia - quella dei Duvalier ,“Papa Doc” il capostipite e “Baby Doc” suo figlio - governò la nazione haitiana per decenni grazie a metodi repressivi e brutali; nel frattempo il “sistema liberista yankee” cominciava a fare breccia nella già disastrata economia dell’isola. Le corporations straniere, installatesi nei principali centri urbani, iniziarono a beneficiare di condizioni di favore e a godere dello sfruttamento di una vasta manodopera composta da un esercito di braccianti provenienti dalle campagne. Ancora una volta la storia si ripeteva: profitti e ricchezza per le multinazionali predatrici, contro miseria e sfruttamento per il popolo.
A partire dal 1984, il Fondo Monetario Internazionale (già responsabile del depauperamento di molti Paesi del Sud del Mondo) impose al governo di Haiti la liberalizzazione dei mercati. Di conseguenza, a tutto vantaggio delle aziende straniere appaltatrici, furono privatizzati gli ultimi servizi pubblici ancora rimasti tali. La maggior parte dei servizi sociali divenne presto inaccessibile ai cittadini meno abbienti, proprio quelli più bisognosi di assistenza.
Nel decennio successivo il derelitto stato caraibico dovette pure rassegnarsi a perdere del tutto la sovranità alimentare. E’ sufficiente osservare che nel 1970 Haiti produceva il 90% degli alimenti consumati dalla sua popolazione, mentre ora è costretta ad importarne il 55%. Il riso statunitense (fortemente sovvenzionato dal governo di Washington) ha rapidamente distrutto la produzione locale mandando in malora migliaia di contadini e di piccoli agricoltori. Ma l’apice della crisi alimentare si è toccato solo nell’estate del 2008, quando il rincaro dei prezzi del mercato mondiale (trainato dall’agrobusiness e legato soprattutto alla forte domanda di bio-combustibili) ha fatto schizzare alle stelle il prezzo di molti alimenti di base (+50%), facendo scoppiare disordini in tutto il Paese.
Come è accaduto in tutta l’America Latina negli ultimi decenni, le misure economiche neoliberali sommate “alle rapaci politiche di Washington hanno distrutto tutti i propositi di costruire un’economia sostenibile in Haiti, allontanando la gente dalla terra e dalle piccole comunità agricole e costringendola ad insediarsi nelle pericolose ed insalubri periferie urbane, dove ciascuno cerca di condurre una misera esistenza lavorando nelle fabbriche “schiaviste” di proprietà delle elites occidentali e dei loro amministratori locali.” *
Le conseguenze dirette di quelle scelte di politica economica stanno sotto gli occhi di tutti. Oggi sono milioni gli haitiani debilitati dalla denutrizione e quasi privi di assistenza socio-sanitaria che vivono ammassati nei tuguri: quelle stesse case che sono crollate come castelli di sabbia sotto le scosse sismiche, con un effetto moltiplicatore di vittime e di sofferenze per una volta non necessarie.
La vera “ricostruzione” civile ed economica di Haiti - a patto che la si voglia davvero realizzare - deve passare innanzitutto attraverso la cancellazione del suo debito estero. Cosa molto difficile da fare nella pratica. Negli ultimi anni, la massiccia campagna per la riduzione del debito estero dei paesi poveri ha così “scosso” le coscienze mondiali che alcuni importanti enti prestatori hanno cominciato ad affrontare l’argomento con meno cinismo. Ma, evidentemente, tutto ciò non può bastare.
E’ arrivato il momento di azzerare il debito, questa volta senza condizioni, e di fare in modo che gli aiuti per il terremoto non arrivino più sottoforma di prestiti - spesso utilizzati come strumenti di ricatto politico e difficilmente ripagabili -, ma vengano messi in campo, piuttosto, come sussidi. Un risultato concreto in questo senso potrebbe davvero salvare moltissime vite, specie quando il sipario sul dramma di Haiti sarà calato definitivamente.
Già molto prima del terremoto, Haiti era uno dei paesi più poveri al mondo (e tra i più turbolenti). Nel 1804 gli schiavi dell’isola dei Carabi sconfissero i loro padroni francesi in quella che passò alla storia come la prima rivoluzione schiavista coronata da successo. Il prezzo della libertà fu però molto salato. Haiti si vide infatti costretta a pagare agli ex padroni lauti “indennizzi”, non ancora del tutto estinti. Da lì nacque ciò che costituisce, ad oggi, un pesante fardello per l’intera cittadinanza haitiana: il suo debito estero.
Passò un secolo e il giovane paese indipendente conobbe dei nuovi padroni. Era il 1915 quando gli Stati Uniti invasero Haiti “fondamentalmente per aprirla alla proprietà straniera degli affari locali. Nel 1934, dopo diciannove anni di occupazione, i nordamericani cominciarono ad appoggiare una serie di dittature sanguinarie con lo scopo di proteggere le loro proprietà. Cosa che hanno continuato a fare fino ai nostri giorni.” *
Come nel caso del Nicaragua dei Somoza, una vera e propria dinastia - quella dei Duvalier ,“Papa Doc” il capostipite e “Baby Doc” suo figlio - governò la nazione haitiana per decenni grazie a metodi repressivi e brutali; nel frattempo il “sistema liberista yankee” cominciava a fare breccia nella già disastrata economia dell’isola. Le corporations straniere, installatesi nei principali centri urbani, iniziarono a beneficiare di condizioni di favore e a godere dello sfruttamento di una vasta manodopera composta da un esercito di braccianti provenienti dalle campagne. Ancora una volta la storia si ripeteva: profitti e ricchezza per le multinazionali predatrici, contro miseria e sfruttamento per il popolo.
A partire dal 1984, il Fondo Monetario Internazionale (già responsabile del depauperamento di molti Paesi del Sud del Mondo) impose al governo di Haiti la liberalizzazione dei mercati. Di conseguenza, a tutto vantaggio delle aziende straniere appaltatrici, furono privatizzati gli ultimi servizi pubblici ancora rimasti tali. La maggior parte dei servizi sociali divenne presto inaccessibile ai cittadini meno abbienti, proprio quelli più bisognosi di assistenza.
Nel decennio successivo il derelitto stato caraibico dovette pure rassegnarsi a perdere del tutto la sovranità alimentare. E’ sufficiente osservare che nel 1970 Haiti produceva il 90% degli alimenti consumati dalla sua popolazione, mentre ora è costretta ad importarne il 55%. Il riso statunitense (fortemente sovvenzionato dal governo di Washington) ha rapidamente distrutto la produzione locale mandando in malora migliaia di contadini e di piccoli agricoltori. Ma l’apice della crisi alimentare si è toccato solo nell’estate del 2008, quando il rincaro dei prezzi del mercato mondiale (trainato dall’agrobusiness e legato soprattutto alla forte domanda di bio-combustibili) ha fatto schizzare alle stelle il prezzo di molti alimenti di base (+50%), facendo scoppiare disordini in tutto il Paese.
Come è accaduto in tutta l’America Latina negli ultimi decenni, le misure economiche neoliberali sommate “alle rapaci politiche di Washington hanno distrutto tutti i propositi di costruire un’economia sostenibile in Haiti, allontanando la gente dalla terra e dalle piccole comunità agricole e costringendola ad insediarsi nelle pericolose ed insalubri periferie urbane, dove ciascuno cerca di condurre una misera esistenza lavorando nelle fabbriche “schiaviste” di proprietà delle elites occidentali e dei loro amministratori locali.” *
Le conseguenze dirette di quelle scelte di politica economica stanno sotto gli occhi di tutti. Oggi sono milioni gli haitiani debilitati dalla denutrizione e quasi privi di assistenza socio-sanitaria che vivono ammassati nei tuguri: quelle stesse case che sono crollate come castelli di sabbia sotto le scosse sismiche, con un effetto moltiplicatore di vittime e di sofferenze per una volta non necessarie.
La vera “ricostruzione” civile ed economica di Haiti - a patto che la si voglia davvero realizzare - deve passare innanzitutto attraverso la cancellazione del suo debito estero. Cosa molto difficile da fare nella pratica. Negli ultimi anni, la massiccia campagna per la riduzione del debito estero dei paesi poveri ha così “scosso” le coscienze mondiali che alcuni importanti enti prestatori hanno cominciato ad affrontare l’argomento con meno cinismo. Ma, evidentemente, tutto ciò non può bastare.
E’ arrivato il momento di azzerare il debito, questa volta senza condizioni, e di fare in modo che gli aiuti per il terremoto non arrivino più sottoforma di prestiti - spesso utilizzati come strumenti di ricatto politico e difficilmente ripagabili -, ma vengano messi in campo, piuttosto, come sussidi. Un risultato concreto in questo senso potrebbe davvero salvare moltissime vite, specie quando il sipario sul dramma di Haiti sarà calato definitivamente.
Andrea Necciai
Note:
*“Haitì,
un paese senza perdono” di Chrys Floyd.