“SHOCK ECONOMY” IN
SALSA LATINA.
Negli ultimi decenni l’America Latina ha rappresentato il
principale laboratorio di sperimentazione delle “terapie di shock”- l’insieme
delle misure economiche cosiddette “di emergenza”, assai gradite alle grandi
corporations e multinazionali - come le privatizzazioni su larga scala e i
drastici tagli alla spesa sociale; misure che depauperano e indeboliscono lo
Stato in nome del dogma del Libero Mercato.
In uno dei suoi saggi più letti, il defunto economista
Milton Friedman (considerato a ragione uno degli artefici della dottrina
neoliberista), che sembrava aver trovato la panacea per il capitalismo moderno,
affermava che “soltanto una crisi, autentica o supposta, può produrre un
cambiamento reale. Quando si produce una crisi, le azioni che si adottano
devono dipendere dalle idee dominanti”.
Friedman seppe come sfruttare una crisi “su grande scala” a
metà degli anni 70, quando entrò in contatto con il dittatore cileno Augusto
Pinochet. In quel frangente il Cile, che già dovette sopportare lo shock
improvviso del colpo di stato militare ai danni del governo legittimo del
socialista Allende, stava soffrendo un periodo di grave crisi economica dovuto
all'iperinflazione.
Di conseguenza, l’arguto Friedman raccomandò a Pinochet di
imporre una repentina trasformazione dell'economia a base di tagli alle tasse,
libero commercio, privatizzazione dei servizi pubblici, drastica riduzione
della spesa sociale e “deregulation”. Il risultato fu la più grande
trasformazione capitalista mai realizzata nella storia del Continente (meglio
conosciuta come “Rivoluzione della Scuola di Chicago”); ma le conseguenze
furono soprattutto: licenziamenti di massa, disoccupazione crescente e aumento
delle povertà.
Mentre analoghi processi si stavano sperimentando negli
stessi anni in Brasile, Uruguay ed Argentina, sempre contando sull’aiuto dei
“cervelli” dell'Università di Chicago e sotto l’ala protettrice di brutali
dittature militari, vale la pena ricordare che queste importanti riforme
economiche, indubbiamente ideate “per il bene del paese”, furono propinate alle
popolazioni interessate mediante terapie non proprio indolori in molte sale di
tortura sudamericane, grazie al meticoloso lavoro di soldati e poliziotti
addestrati negli Stati Uniti.
Negli anni 80 e 90 le dittature lasciavano lentamente spazio
a fragili democrazie, ma l'America Latina non riuscì lo stesso a sfuggire alla
“dottrina dello shock”. Anzi, nuove crisi preparavano il terreno per un'altra
sfilza di “terapie d’urto” di stampo liberista: il problema dell'indebitamento
agli inizi degli anni 80, seguito da un'ondata di iperinflazione e dal crollo
dei prezzi delle materie prime, dalle cui esportazioni - del resto - dipendono
ancora oggi molte economie della regione.
Oggi, in virtù di questi trascorsi, appare logico che la
rivolta contro il neoliberismo abbia la sua avanguardia proprio in America
latina, dove con coraggio intere popolazioni, istituzioni e movimenti politici
continuano ad opporsi ad un modello economico che mostra sempre più le corde ma
ha ancora la forza di imporsi come sistema dominante.
Come “cavie” del primo “laboratorio di shock” i
latinoamericani hanno avuto molto tempo per capire i meccanismi di
funzionamento delle politiche neoliberali, ma ora sembrano aver sviluppato i
giusti anticorpi per proteggersi da nuovi, minacciosi venti di crisi. E pare
anche che molti governi si siano gettati alle spalle, forse definitivamente, i
fantasmi di un sistema economico devastante che per decenni ha avuto il solo
merito di moltiplicare sofferenze e povertà dal Rio Bravo alla Terra del Fuoco.
Andrea Chile Necciai