martedì 1 febbraio 2005

AlReves: Cile


Il modello cileno.

 Nel firmamento mondiale della globalizzazione dei mercati brilla una nuova stella. Al Cile del presidente socialdemocratico Lagos spetta il poco invidiabile primato di Paese dall’economia più aperta di tutta l’America Latina.
Fin dagli anni settanta in piena dittatura pinochetista, i seguaci di Milton Friedman vi hanno costruito il loro laboratorio di sperimentazione delle teorie economiche ultraliberiste, aiutati nel loro intento anche dai più recenti governi “progressisti” figli della concertazione tra socialisti e democristiani. Nei tre lustri di gestione socialdemocratica, la politica economica cilena è stata caratterizzata da una lunga serie di accordi bilaterali sul libero commercio, stretti principalmente con Stati Uniti e Canada verso i quali l’export ha fatto registrare un’impennata del 40%. Un risultato a prima vista eccellente.
A ben vedere, tuttavia, la struttura economica del Paese è regredita negli ultimi decenni ad un livello primario, dal momento che il volume delle esportazioni si concentra prevalentemente nel settore delle materie prime (rame, uva e farine di pesce), mentre interessa solo marginalmente quello dei prodotti finiti (manufatti, vino e prodotti industriali).
Il tanto decantato boom dell’export, se da un lato ha consentito l’accumulo di ingenti introiti (ad esclusivo vantaggio delle grandi imprese esportatrici che controllano il 98% del traffico mercantile), da un punto di vista sociale non ha fatto altro che aumentare il divario che separa una ristretta cerchia di neoarricchiti da un esercito di lavoratori - occupati o sottoccupati - ridotti in miseria. Tra questi ultimi circa un milione di persone (un quarto di tutti i salariati) “non ha alcun contratto di lavoro. E agli sconfitti del sistema si vanno aggiungendo professionisti, piccoli e persino medi imprenditori che non ce la fanno”. *
In un paese dove la stragrande maggioranza della forza lavoro si concentra nella piccola e media impresa, i profitti (assicurati e a breve termine) vengono realizzati solo da poche categorie di privilegiati che controllano tutti i settori strategici dell’economia. Secondo i dati del Programma di Sviluppo Umano dell’Onu, in Cile “il 10% più povero genera il 3,7% del reddito nazionale, mentre quello più ricco si appropria del 54%”.
Il modello economico-industriale cileno, il sistema per definizione della “crescita impoverente”,  può vantare indici economici di tutto rispetto - tanto da meritare il plauso delle istituzioni finanziarie mondiali - che si traducono in lauti guadagni per grandi aziende e multinazionali. Ma si tratta di uno sviluppo economico costruito sulla pelle di un’enorme massa di lavoratori “a basso costo, flessibili e addomesticati, senza più diritti né capacità di reazione”. * 
Nel settore della moderna agricoltura da esportazione, da sempre punta di diamante dell’economia cilena, le condizioni di vita di lavoratori e braccianti sono andate col tempo peggiorando. Attualmente appena 312 aziende si estendono su 26 milioni di ettari e, negli ultimi trent’anni, ben 800.000 piccoli proprietari terrieri “si sono già trasformati in bracciantato per le grandi proprietà”. Queste mega-haciendas possono anche contare sull’apporto degli stagionali: una forza lavoro di almeno 200.000 addetti sottoposti a condizioni di lavoro impossibili, senza tutele sindacali e sanitarie (come del resto accade nella maggior parte delle piantagioni centroamericane di proprietà delle multinazionali).
Nel quadro del drastico risanamento della finanza pubblica - altro postulato del dogmatismo neoliberista -, i colpi d’accetta assestati al sistema pensionistico hanno contribuito negli ultimi vent’anni a gettare sul lastrico migliaia di cittadini cileni.
Ispirate anch’esse alla dottrina dei “Chicago Boys”, le riforme strutturali in campo previdenziale presero il via già a partire dagli anni 80. Fu infatti il governo di Pinochet il primo ad introdurre il metodo del calcolo contributivo, il quale “deve rispettare rigidamente solo l'ammontare di ciò che si è versato dal primo giorno di lavoro al giorno di riposo. Un disastro per i signori di una certa età sfiniti dall'inflazione e da stipendi inferiori al salario minimo: il 40% della popolazione viveva così. E perse anche quel poco”. **
Venticinque anni più tardi, il grande affare della gestione dei fondi pensione è finito nelle mani di cinque società finanziarie private, mentre altre quattro holding (anche queste private) amministrano  il 75% del servizio sanitario nazionale. Situazioni simili di monopolio si hanno anche nel settore dei supermercati, delle assicurazioni, della telefonia e della comunicazione.
Mentre proliferano affari e investimenti, per la gioia di finanzieri e mercanti, il popolo cileno reclama condizioni di vita più dignitose. Anche se camuffati dalle statistiche ufficiali i poveri, che al tempo di Allende erano il 30%, sono diventati oggi la metà della popolazione: nove milioni di persone. Altre vittime sacrificali immolate al “Dio Mercato”.   
(Andrea “Chile” Necciai)


 

 Note:
* “Cile, il laboratorio economico dell’ingiustizia sociale” di Gennaro Carotenuto.
** “Gli smemorati amici di Pinochet” di Maurizio Chierici.