Il modello cileno.
Nel firmamento mondiale della
globalizzazione dei mercati brilla una nuova stella. Al Cile del presidente
socialdemocratico Lagos spetta il poco invidiabile primato di Paese
dall’economia più aperta di tutta
l’America Latina.
Fin dagli anni settanta in piena
dittatura pinochetista, i seguaci di Milton Friedman vi hanno costruito il loro
laboratorio di sperimentazione delle teorie economiche ultraliberiste, aiutati
nel loro intento anche dai più recenti governi “progressisti” figli della
concertazione tra socialisti e democristiani. Nei tre lustri di gestione
socialdemocratica, la politica economica cilena è stata caratterizzata da una
lunga serie di accordi bilaterali sul libero commercio, stretti principalmente
con Stati Uniti e Canada verso i quali l’export ha fatto registrare
un’impennata del 40%. Un risultato a prima vista eccellente.
A ben vedere, tuttavia, la struttura economica del Paese è
regredita negli ultimi decenni ad un livello primario, dal momento che il volume delle esportazioni si concentra
prevalentemente nel settore delle materie
prime (rame, uva e farine di pesce), mentre interessa solo marginalmente
quello dei prodotti finiti
(manufatti, vino e prodotti industriali).
Il tanto decantato boom dell’export, se da un lato ha
consentito l’accumulo di ingenti introiti (ad esclusivo vantaggio delle grandi
imprese esportatrici che controllano il 98% del traffico mercantile), da un
punto di vista sociale non ha fatto altro che aumentare il divario che separa
una ristretta cerchia di neoarricchiti da un esercito di lavoratori - occupati
o sottoccupati - ridotti in miseria. Tra questi ultimi circa un milione di
persone (un quarto di tutti i salariati) “non ha alcun contratto di lavoro. E
agli sconfitti del sistema si vanno aggiungendo professionisti, piccoli e
persino medi imprenditori che non ce la fanno”. *
In un paese dove la stragrande maggioranza della forza
lavoro si concentra nella piccola e media impresa, i profitti (assicurati e a
breve termine) vengono realizzati solo da poche categorie di privilegiati che
controllano tutti i settori strategici dell’economia. Secondo i dati del
Programma di Sviluppo Umano dell’Onu, in Cile “il 10% più povero genera il 3,7%
del reddito nazionale, mentre quello più ricco si appropria del 54%”.
Il modello economico-industriale cileno, il sistema per
definizione della “crescita impoverente”,
può vantare indici economici di tutto rispetto - tanto da meritare il
plauso delle istituzioni finanziarie mondiali - che si traducono in lauti
guadagni per grandi aziende e multinazionali. Ma si tratta di uno sviluppo
economico costruito sulla pelle di un’enorme massa di lavoratori “a basso
costo, flessibili e addomesticati, senza più diritti né capacità di reazione”.
*
Nel settore della moderna agricoltura da esportazione, da
sempre punta di diamante dell’economia cilena, le condizioni di vita di
lavoratori e braccianti sono andate col tempo peggiorando. Attualmente appena
312 aziende si estendono su 26 milioni di ettari e, negli ultimi trent’anni,
ben 800.000 piccoli proprietari terrieri “si sono già trasformati in
bracciantato per le grandi proprietà”. Queste mega-haciendas possono anche contare sull’apporto degli stagionali:
una forza lavoro di almeno 200.000 addetti sottoposti a condizioni di lavoro impossibili,
senza tutele sindacali e sanitarie (come del resto accade nella maggior parte
delle piantagioni centroamericane di proprietà delle multinazionali).
Nel quadro del drastico risanamento della finanza pubblica
- altro postulato del dogmatismo neoliberista -, i colpi d’accetta assestati al
sistema pensionistico hanno contribuito negli ultimi vent’anni a gettare sul
lastrico migliaia di cittadini cileni.
Ispirate anch’esse alla dottrina dei “Chicago Boys”, le
riforme strutturali in campo previdenziale presero il via già a partire dagli
anni 80. Fu infatti il governo di Pinochet il primo ad introdurre il metodo del
calcolo contributivo, il quale “deve rispettare rigidamente solo l'ammontare di
ciò che si è versato dal primo giorno di lavoro al giorno di riposo. Un
disastro per i signori di una certa età sfiniti dall'inflazione e da stipendi
inferiori al salario minimo: il 40% della popolazione viveva così. E perse
anche quel poco”. **
Venticinque anni più tardi, il grande affare della
gestione dei fondi pensione è finito nelle mani di cinque società finanziarie
private, mentre altre quattro holding
(anche queste private) amministrano il
75% del servizio sanitario nazionale. Situazioni simili di monopolio si hanno
anche nel settore dei supermercati, delle assicurazioni, della telefonia e
della comunicazione.
Mentre proliferano affari e investimenti, per la gioia di
finanzieri e mercanti, il popolo cileno reclama condizioni di vita più
dignitose. Anche se camuffati dalle statistiche ufficiali i poveri, che al
tempo di Allende erano il 30%, sono diventati oggi la metà della popolazione:
nove milioni di persone. Altre vittime sacrificali immolate al “Dio
Mercato”.
(Andrea
“Chile” Necciai)
Note:
* “Cile,
il laboratorio economico dell’ingiustizia sociale” di Gennaro Carotenuto.
** “Gli
smemorati amici di Pinochet” di Maurizio Chierici.