I misfatti del “Plan Colombia”
Una terra sterminata con quasi 40
milioni di abitanti; un paradiso di biodiversità (oltre 2.000 le specie di
uccelli) in una galassia di paesaggi multiformi e variopinti: foreste pluviali,
savane, vulcani e montagne di oltre 5.000 metri, una rete fluviale colma di
risorse idriche. E’ la Colombia, paese meraviglioso e ricco di contrasti. La
sua economia è una delle meno disastrate dell’America Latina, grazie
soprattutto all’abbondanza di merci esportate: petrolio, gas naturali, carbone,
smeraldi e caffè in primis, senza contare i traffici illegali di coca ed
eroina.
Ancora oggi, però, 8 milioni di
colombiani vivono in condizioni di povertà estrema; il grave squilibrio sociale
nel paese porta il 10% più ricco a possedere un reddito 133 volte maggiore del
10% più povero. La Colombia è anche la nazione che “vanta” il più alto numero
di omicidi e di assassini politici del continente (quasi 90 ogni 100.000
abitanti), con un vasto campionario di vittime che comprende, oltre alla gente
comune, anche sindacalisti, esponenti politici, giornalisti ed attivisti dei
diritti umani. Ormai la violenza non risparmia più nessuno, in un ginepraio di
contrasti interni alimentati da una guerra civile che dura da oltre
cinquant’anni e dalle lotte armate per il controllo del narcotraffico.
La lunga spirale di violenza ha
inizio nel 1948 con la contrapposizione tra i due principali attori della scena
politica: le forze liberali e progressiste da una parte e i
nazional-conservatori legati alla difesa dei privilegi delle classi dominanti,
dall’altra. Durante gli anni della Guerra Fredda, gli scontri si intensificano
anche a causa dell’ingerenza degli Stati Uniti. I Gringos temono il diffondersi
del “morbo comunista”, dopo il successo della rivoluzione cubana e la crescente
attività dei movimenti insurrezionali in tutto il continente latinoamericano.
La strategia politico-militare
che gli Usa applicano in quella porzione di mondo si rifà alla celebre
“Dottrina della Sicurezza Nazionale”. Essa prevede essenzialmente l’invio di
finanziamenti e di supporti logistici a tutte quelle forze “reazionarie” (in
genere contingenti regolari, corpi paramilitari, oppure eserciti privati a
servizio di “terratenientes”) presenti nelle aree più esposte al “pericolo
rosso”. In realtà, nel caso colombiano, lo scopo non dichiarato è quello di
pervenire al controllo diretto delle risorse energetiche indispensabili
all’industria nordamericana, ed altrettanto necessarie alle compagnie
multinazionali interessate ad incrementare il “prelievo” sottocosto di materie
prime.
Anche oggi il copione non è
mutato, con gli americani impegnati a fondo nella realizzazione del “Plan
Colombia” proposto nel 1998 dal governo Pastrana: un mastodontico progetto di
aiuti militari ed economici che in poco tempo ha fatto della Colombia uno dei
maggiori beneficiari dell’assistenza militare statunitense. In gioco ci sono
importanti investimenti nell’area delle Ande, come il consolidamento dell’ALCA
(Area di Libero Commercio delle Americhe) e la salvaguardia di interessi in
attività legali e illegali.
Nel quinquennio 1996-2000, con il
pretesto della lotta al narcotraffico, il governo colombiano ha ricevuto dagli
Usa e da altri partner più di 1.300 milioni di dollari in aiuti di vario genere
(in prevalenza apparati militari e sistemi d’arma). Questa spesa è destinata ad
aumentare anche nei i prossimi anni, dal momento che le forze armate
rivoluzionarie (FARC e ELN) controllano una porzione consistente di territorio
ed hanno raggiunto col tempo un livello di organizzazione e di efficienza pari
a quello di un esercito professionale.
Attualmente le FARC (Fuerzas
Armadas Revolucionarias de Colombia, la formazione guerrigliera più numerosa
dell’America Latina) presidiano la zona sudorientale della nazione, vale a dire
giacimenti petroliferi, allevamenti intensivi, coltivazioni di coca e
principali fiumi. Al più piccolo ELN (Esercito di Liberazione Nazionale, gruppo
filocubano di 5.000 combattenti) resta il controllo dell’area occidentale e del
bacino dell’Orinoco (piantagioni di cotone e, in parte, caffè, coca e
papavero). Completano il quadro delle unità combattenti colombiane i
paramilitari di destra delle AUC (Autodefensas Unidas de Colombia), milizie
locali al soldo di latifondisti e narcotrafficanti.
Le AUC rivendicano la propria
presenza in 350 municipalità colombiane, circa la metà del totale, con
l’obiettivo di contrastare i guerriglieri di sinistra. Per ammissione degli
stessi capi, i paramilitari controllano sia coltivazioni di coca sia raffinerie
di cocaina, e considerano le Farc come semplici concorrenti di una piccola
parte dell’enorme affare della cocaina in Colombia.
Senza ombra di dubbio, dietro
all’uso propagandistico del problema droga si cela il tentativo di tagliare le
finanze alle forze insurrezionali ed assegnare ad enti istituzionali filo Usa
il controllo di un affare che sfugge almeno per il 30%. Tuttavia, “mentre si
continuano a criminalizzare i produttori di droga - commenta il ricercatore
Ricardo Vargas Meza - si lascia fuori ogni disposizione internazionale in fatto
di riciclaggio e di contrabbando di armi e non si tocca minimamente il tema
dell’importazione nel paese di precursori chimici per il processamento degli
stupefacenti (l’80% proviene legalmente dagli Usa, il 16% dall’Europa e il
resto da Venezuela Messico e Cina [n.d.r.]), diluendo così la responsabilità
dei paesi del nord del mondo, loro principali esportatori”.
D’altronde, neppure le grandi
multinazionali sono estranee al gigantesco giro d’affari legato alla
commercializzazione degli stupefacenti, sembrano anzi aver raggiunto il
monopolio
sull’importazione dei composti
chimici più comunemente utilizzati nella raffinazione del prodotto.
La Shell, per esempio, è l’unica
fornitrice di acetone, la cui importazione è giustificata a favore di una
propria fabbrica di sigarette a Cali, mentre i carichi di carbonato di sodio
vengono autorizzati per le esigenze di alcune case di dentifrici, tra cui la
Colgate.
Nel corso degli anni,
l’applicazione del “Plan Colombia” ha prodotto effetti devastanti anche
sull’ecosistema andino. Fin dagli anni 70, l’uso massiccio di diserbanti
chimici e di fumiganti sulle coltivazioni di coca e marijuana è causa di danni
rilevanti alla flora ed alla fauna del paese e di un preoccupante incremento di
malattie nella popolazione esposta.
Tra i principali responsabili del
disastro ambientale c’è il “Fusarium oxysporum”, un fungo creato in laboratorio
attraverso esperimenti di manipolazione genetica “in grado di attaccare piante
e microrganismi presenti nel suolo sino a 50 cm di profondità”. Inoltre, è
stato rilevato che i terreni infestati da questa spora “non possono più servire
per nessun processo di coltivazione alternativa”. Questo fenomeno costringe
intere masse di popolazione contadina ad esodi forzati verso territori ancora
incontaminati.
Secondo il rapporto
dell’Università di Medellin sui “Danni ambientali del Fusarium oxysporum”, al
micidiale fungo verrebbe attribuita “l’origine dell’esplosione dei casi di
cancro e leucemia tra la popolazione [nelle zone rurali con presenza di
coltivazioni illegali] e una riduzione delle difese immunitarie dalle infermità
che derivano da affezioni virali o da denutrizione”.
Anche i composti chimici trovano
in Colombia larghe possibilità di impiego. Tra i più conosciuti (e deleteri)
figurano gli erbicidi “Paraquat” e “Triclopyr” - già sperimentati dagli
americani “con successo” in teatri d’operazione come Vietnam ed Indocina - e il
micidiale defoliante “Tebuthiuron”, ritirato dal commercio in Perù a causa dei
“danni irreversibili agli ecosistemi terrestri ed acquatici e agli stessi
esseri umani”.
Dall’autunno del 2001 la
denominazione “Plan Colombia” è stata sostituita con la più convincente
“Iniziativa Regionale Andina” (IRA). Ma la sostanza e gli scopi del progetto
non sono cambiati.
Dalla Colombia, intanto,
continuano a giungere notizie di massacri di civili (opera per lo più delle
forze dell’AUC), in aggiunta ai consueti bollettini di guerra che parlano di
ingenti perdite di tutti i contendenti in campo.
(Chile)