“Povera Bolivia, lontana e
sola”
Correva l’anno 1967. In località La Higuera (valle dello
Yuro) veniva barbaramente giustiziato Ernesto “Che” Guevara, in seguito alla
cattura per mano delle forze speciali dell’esercito boliviano, addestrate ed
armate negli Stati Uniti. Il libertador argentino era giunto in terra
boliviana con un pugno di guerriglieri, convinto di poter gettare le basi per
un moto rivoluzionario che, almeno nelle sue intenzioni, era destinato ad
espandersi in tutto il continente. L’esito dell’impresa fu invece, come
sappiamo, disastroso.
A più di trent’anni da quell’evento, la tragedia si rinnova
in un paese, la Bolivia, che dai tempi dei “conquistadores” ha subito ogni
sorta di saccheggio dai colonizzatori di turno. L’avidità dei mercanti dell’Occidente
ha già provocato, nei secoli scorsi, la razzia dell’argento di Potosì
(responsabili gli spagnoli) e del salnitro (gli inglesi). Il popolo boliviano,
il più povero tra i più poveri del sudamerica, ebbe in cambio migliaia di
indigeni morti nelle miniere e una perdurante condizione di miseria.
Oggi, a far gola ai nuovi sfruttatori del pianeta ci sono
petrolio e gas, ossia le ultime risorse rimaste in abbondanza nella terra
andina. Evidentemente la vacca, sebbene sempre più magra e debilitata, può
essere ancora munta a dovere. Almeno così pensavano le compagnie nordamericane
che negli ultimi tempi hanno beneficiato di enormi quantità di idrocarburi,
venduti sottocosto dal governo boliviano dell’ossequioso e compiacente
presidente Sanchez de Lozada, soprannominato per questo motivo el Gringo.
Se non che, nel mese scorso, la pressione esercitata dai
tumulti popolari e dagli scioperi ad oltranza è divenuta insostenibile, tanto
da costringere el Gringo e i suoi sodali alle dimissioni e ad una
precipitosa fuga in quel di Miami.
Così, dopo sei settimane convulse ed una lunga scia di
sangue - si calcola che le vittime della repressione tra i manifestanti siano
un’ottantina - il vice di Sanchez, Carlos Mesa, ha finalmente preso le redini
del paese giurando fedeltà alla Costituzione davanti al Congresso.
Dopo aver reso un doveroso omaggio ai
caduti nella rivolta popolare, il nuovo presidente pare ora intenzionato a
soddisfare le tre principali richieste dell’opposizione: un referendum
nazionale sulla questione del gas (il “detonatore” che ha fatto esplodere la
protesta), la revisione della Ley de Hidrocarburos - con cui el
Gringo aveva regalato alle multinazionali l'ultima risorsa rimasta alla
Bolivia - ed infine la creazione di un'assemblea costituente. La prospettiva,
sempre secondo il neo- presidente, è di giungere al più presto a nuove
elezioni.
Come era ovvio aspettarsi, gli unici a
rimanere delusi dagli sviluppi della crisi boliviana sono gli statunitensi. Il
Dipartimento di Stato americano, rasentando l’ipocrisia, comunica a denti
stretti che “gli Usa sono pronti ad assistere il popolo boliviano e il suo
governo impegnato nel compito essenziale di rimettere ordine nelle istituzioni
nazionali”. Nel frattempo, però, si sono affrettati a costituire un team di
esperti militari - trattasi, con ogni probabilità, della solita équipe di
prezzolati specialisti delle operazioni anti-sommossa - per garantire la
sicurezza della loro ambasciata a La Paz.
Sempre sul fronte esterno, l’Argentina di
Kirchner e il Brasile di Lula hanno fatto sapere di apprezzare l’insediamento
del nuovo presidente. Elogi e plausi arrivano anche dall’Unione Europea. E
pensare che fino a qualche settimana fa Bruxelles continuava a sostenere
imprudentemente l’operato di Sanchez de Lozada!
Tirando le somme, dopo i precedenti
disastrosi di Brasile ed Argentina - tanto per citare i fallimenti più
eclatanti - il caso boliviano dovrebbe finalmente indurre Stati Uniti e UE a
rivedere, in fatto di politica economica, le strategie che da una ventina
d’anni tentano di imporre sciaguratamente al continente latinoamericano.
Strategie di un capitalismo “d’assalto” che non può funzionare sui paesi
“vittime” (il sud del mondo) e che persino nelle aree più ricche ed
industrializzate (il nord del mondo) continua a produrre, lentamente ma
inesorabilmente, conseguenze sociali devastanti.
(Chile)
(Chile)