lunedì 28 gennaio 2013

Un intenso anno elettorale per l’America latina

di Annalisa Melandri 
Il 2013 appena iniziato si profila un anno denso di appuntamenti elettorali per l’America latina. Si chiude invece il 2012, almeno per i venezuelani, con molta apprensione per le condizioni di salute del presidente Hugo Chávez Frias, che l’11 dicembre scorso è stato sottoposto a Cuba ad un nuovo intervento chirurgico (il quarto in un anno e mezzo) per rimuovere una lesione cancerosa al colon.
Il decorso post’operatorio di quest’ultimo intervento appare notevolmente più complicato dei precedenti per una serie di gravi complicazioni, tanto da far circolare in queste ore alcune agenzie rispetto ad un suo probabile ‘coma indotto’. Non è stato tuttavia sufficiente l’intervista rilasciata il 1 gennaio scorso da l’Avana del vicepresidente Nicolás Maduro appena dopo il suo incontro con Chávez, nella quale afferma di averlo visto con una “forza gigantesca” a tranquillizzare i venezuelani simpatizzanti del presidente.
Sicuramente della gravità della sua situazione è al corrente lo stesso Chávez, tanto da fargli dichiarare in una conferenza stampa tenuta qualche settimana prima dell’intervento, che se fosse stato necessario, nel caso si “fosse presentata qualche circostanza” che lo avesse inabilitato a continuare a governare, i venezuelani avrebbero dovuto scegliere come nuovo presidente (quindi in uno scenario di nuove elezioni) proprio Nicolàs Maduro.
Il 10 gennaio prossimo, anche se appare poco probabile, Chávez dovrebbe essere a Caracas per assumere formalmente il nuovo mandato dopo le recentissime elezioni del 7 ottobre scorso. Se ci fosse la necessità di indire nuove elezioni, il vicepresidente Maduro dovrebbe assumere la presidenza pro tempore. A questo punto si riaprirebbero i giochi elettorali in Venezuela che potrebbero riservare al chavismo, se non affronterà la situazione con la coesione e la maturità necessaria, molte sorprese. L’opposizione ricandiderebbe infatti sicuramente Henrique Capriles Radonski, probabilmente il migliore e il più onesto di tutti quelli che hanno tentato di incrinare il consolidato potere di Hugo Chávez.
In un clima sicuramente più sereno sarà l’Ecuador invece il primo dei paesi dell’America latina a presentarsi all’appuntamento elettorale, previsto per il prossimo 17 febbraio. Proprio oggi inizierà la campagna elettorale ed il presidente Rafael Correa ha già ottenuto autorizzazione dall’Assemblea Nazionale per poter cedere momentaneamente i poteri al vicepresidente Lenín Moreno e dedicarsi ad essa con il suo partito Alianza País.
L’ultimo sondaggio della società Perfiles de Opinión, concluso il 21 dicembre scorso, lo vede vincitore al primo turno con il 60,6 % delle intenzioni di voto, seguito dall’ex banchiere ed imprenditore Guillermo Lasso (11,2%) candidato del movimento di destra Creando Oportunidades (CREO). Correa deve inoltre affrontare gli sfidanti di sempre e cioè Lucio Gutierrez(4,5%), ex militare ed ex presidente (2003–2005) destituito da una ribellione popolare che si presenta con il centrista Partido Sociedad Patriotíca, e l’imprenditore bananiero Alvaro Noboa (1,8%), l’uomo più ricco del paese che per la quinta volta si candida alla presidenza, adesso con il neoliberista Partido Renovador Institucional Acción Nacional (PRINA).
Sono quattro gli altri candidati minori tra i quali Alberto Acosta (3,5%), rappresentante della sinistra alternativa a quella ufficialista, della quale almeno fino a poco tempo fa è stato parte integrante, essendo uno dei principali ideologi della Revolución Ciudadana, il progetto politico per il paese portato avanti da Rafael Correa.
Correa, al suo secondo mandato e governa fin dal 2006 si troverebbe così alla sua terza rielezione, ma ha dalla sua la realizzazione di molti degli obiettivi di governo soprattutto in tema di salute, sovranità popolare e riduzione della povertà. Non è stato esente da critiche soprattutto per i rapporti con i potenti mezzi di comunicazione privati del paese, ma anche da parte di alcuni settori intransigenti di sinistra e di associazioni indigene.
Il Paraguay esce invece da un anno politico abbastanza turbolento, in gran parte dovuto alle conseguenze internazionali a seguito del colpo di Stato parlamentare con il quale il Congresso, il 22 giugno scorso ha deposto nel giro di 24 ore, il presidente Fernando Lugo prendendo come scusa per il suo impeachment gravi incidenti avvenuti un mese prima tra tra polizia e contadini. Assunse il mandato in quell’occasione l’allora vicepresidente Federico Franco.
Da quel momento il Paraguay venne espulso dagli organismi economici e politici regionali quali l’Unione delle Nazioni Sudamericane (UNASUR) e il Mercato Comune del Sud (MERCOSUR), sospensione confermata almeno fino alla presa in carico del prossimo presidente. Le elezioni si terranno il 21 aprile prossimo e verranno eletti il presidente e il vicepresidente, membri del Congresso e governatori. Probabilmente tra tutte le elezioni del 2013 in America latina, queste in Paraguay saranno le più osservate visti gli avvenimenti di quest’anno e il malessere serpeggiante tra la popolazione.
In Paraguay fino alle ultime elezioni del 2008, vinte da Fernando Lugo alla testa di un’ampia ed eterogenea coalizione di vari partiti tra i quali il Partido Liberal Radical Auténtico (PLRA), la seconda forza politica del paese, aveva dominato egemonicamente per oltre 61 anni (anche durante i 35 anni della dittatura di Alfredo Stroessner) la Asociación Nacional RepublicanaPartido Colorado, di destra.
In queste prossime elezioni tutto lascia immaginare che il conservatore Partido Colorado tornerà al potere, il suo candidato infatti, l’imprenditore Horacio Cartes ha il 22,3% delle intenzioni di voto, seguito dal candidato del Partido Liberal Efraín Alegre con il 18,5%. Le forze di sinistra che si presentano divise, soltanto unendosi, potrebbero riuscire a diventare la terza forza politica del paese. L’ex presidente Lugo invece si è candidato come senatore con il Frente Guasú (una delle due coalizioni progressiste). Ancora poco chiari i programmi dei candidati presidenziali, per ora predomina la volontà soprattutto da parte di Horacio Cartes, sul quale pesano tra l’altro pesanti accuse di vincoli con il narcotraffico, da lui sempre smentite, di “riportare al potere il partido Colorado” ma la prossima sfida sarà, indipendentemente dal vincitore, quella di riuscire a riacquistare fiducia e credibilità con i partner regionali dopo la crisi politica del giugno scorso.
Il 10 novembre l’Honduras torna al voto dopo le discusse elezioni del novembre 2009 seguite al colpo di Stato di qualche mese prima, organizzato dal Congresso e dalla Corte Suprema di Giustizia e messo in atto dall’esercito, con il quale il presidente Manuel Zelaya fu espulso dal paese.
L’attuale presidente Porfirio Lobo, del Partido Nacional, di destra, si è trovato in questi anni a governare in mezzo ad una profonda crisi politica e sociale, seguita al colpo di Stato, del quale il paese sta ancora subendo le conseguenze. L’impunità ha caratterizzato l’atteggiamento del governo rispetto alle violazioni dei diritti umani commesse sia nei giorni del golpe che successivamente. Inoltre l’aumento vertiginoso del narcotraffico ha reso l’Honduras uno dei paesi più violenti in Amarica latina e Tegucigalpa, la sua capitale, una delle città più violente al mondo, con indici di omicidi per abitante anche superiori alla già tristemente nota Ciudad Juárez in Messico.
Il Partido Nacional si presenta con il candidato Juan Hernández, l’attuale presidente del Congresso, il Partido Liberal, l’altro attore dell’ormai secolare bipartitismo honduregno corre con l’avvocato Mauricio Villeda e la sinistra dopo il golpe è riuscita a riorganizzarsi intorno a Xiomara Castro, moglie dell’ex presidente Manuel Zelaya, nel Partido Libre.
E’ ancora troppo presto per parlare di intenzioni di voto e di programmi elettorali, le forze politiche hanno a che fare con un clima interno attuale tutt’altro che sereno, con dispute anche con altri settori del potere, come la magistratura, pesano forti dubbi di infiltrazioni del narcotraffico sulla futura campagna elettorale e la sinistra ha il duro compito di incrinare il modello bipartitista sempre dominante nel paese.
Le elezioni presidenziali in Cile avranno luogo il 17 novembre. Due sono le novità per questo paese: per la prima volta il voto non sarà obbligatorio e i candidati verranno decisi da elezioni primarie da tenersi entro giugno. Sebastián Piñera, dopo quattro anni di governo (2009–2013) della Coaliciòn por el Cambio, una coalizione di partiti di destra con la quale nel 2009, per la prima volta dopo due decenni risultarono sconfitte le forze di centro sinistra riunite nella Concertacion de Partidos por la Democracia (con il candidato Eduardo Frei Ruiz — Tagle), lascia un paese che ha raggiunto importanti tassi di crescita economica anche molto superiori rispetto al resto dei paesi della regione. Il suo governo tuttavia sta registrando indici di gradimento molto bassi (a settembre era del 32%), soprattutto durante le proteste studentesche, represse duramente, che si sono susseguite tra il 2011 e il 2012.
I precandidati per la Coalición por el Cambio sono l’ingegnere Laurence Golborne, ex ministro delle Miniere ed attualmente Ministro dei Lavori Pubblici e Andrés Allamand, ex ministro della Difesa e fondatore del partito conservatore Renovación Nacional come candidato del quale si presenta alle elezioni nella Coalición por el Cambio.
A sinistra si ipotizza un possibile ritorno al governo di Michelle Bachelet, la quale sebbene non abbia confermato pubblicamente la sua candidatura appare come favorita già al primo turno nelle intenzioni di voto, con il 54%. Tutto lascia presagire quindi che con la Bachelet, che attualmente ricopre la carica di Direttore Esecutivo di UN Women (l’agenzia dell’ONU per le questioni di genere), la coalizione di sinistra della Concertación possa tornare al potere, il che confermerebbe anche la tendenza nella regione al ritorno dei vecchi gruppi di potere al governo.
Sarà comunque un anno di continuità nel quale l’ormai avviato processo di integrazione regionale impostato da Néstor Kirchner in Argentina e da Hugo Chávez in Venezuela si dimostra irreversibile anche per le relazioni economiche e politiche tra quei paesi diversi per ideologia dominante, come per esempio Colombia e Venezuela, notevolmente migliorate.
Vale la pena inoltre segnalare l’importante presenza femminile in questo panorama politico; se ipoteticamente dovessero raggiungere la presidenza Michelle Bachelet in Cile e Xiomara Castro in Honduras, insieme a Dilma Rousself attuale presidente del Brasile, Cristina Fernández presidente dell’Argentina e Laura Chinchilla Miranda presidente del Costa Rica darebbero all’ America latina una notevole impronta ‘rosa’ e oltremodo progressista.
Annalisa Melandri

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