domenica 7 giugno 2020

Zaki l’italiano in carcere da quattro mesi e i doveri di un Paese

Sono quattro mesi esatti che Patrick George Zaki è in prigione nel carcere di Tora al Cairo, la capitale del suo Paese, incolpato di non si sa bene quali malefatte contro il regime di Abdel Fattah al Sisi. Un egiziano alle prese con la malagiustizia egiziana. Affari loro? Il fatto è che Zaki, nato da una famiglia borghese copta a Mansoura, 120 chilometri dalla capitale, dal settembre scorso si era guadagnato un master europeo all’Università di Bologna, diventando studente in Italia. Dopo aver brillantemente superato un esame complicato, si concede come premio un breve ritorno a casa dalla sua famiglia.
È il 7 febbraio, quando non si sono ancora spenti gli echi dell’ultima commissione d’inchiesta parlamentare sulla morte indecente di un altro studente italiano, ma di stanza a Cambridge, Giulio Regeni. I familiari, stremati da quattro anni di inutili battaglie per avere almeno un po’ di verità sulla fine atroce e misteriosa di loro figlio, accusano apertamente di omicidio la «dittatura sanguinaria» di Al Sisi. Tre giorni dopo, Patrick Zaki atterra al Cairo, e forse proprio in quanto «italiano» viene arrestato, torturato, interrogato senza esito anche su presunti legami con i Regeni, che non conosceva. Da allora, di 15 giorni in 15 giorni, la sua custodia preventiva viene rinnovata, in attesa di un processo per «istigamento al rovesciamento del governo» che si celebrerà forse tra un anno ma nessuno può dirlo.
Nel frattempo, oltre al sospetto che il suo sia stato un sequestro a scopo di avvertimento alle nostre istituzioni (basta indagini su Regeni), il Covid 19 ha fatto la prima vittima anche nel penitenziario di Tora. Patrick è asmatico: un’infezione polmonare, già debilitato com’è, gli sarebbe fatale. Stiamo facendo qualcosa per lui? Stiamo continuando a fare qualcosa per Giulio Regeni? Doppio zero. 
Una democrazia, la nostra, che lascia che due giovani di 28 anni, entrambi impegnati nello studio e nella pratica dei diritti civili, vengano inghiottiti da una ex repubblica socialista guidata da un presidente padrone e supinamente ne accetta l’insolenza, non brilla né per forza né per decenza. Ma anche se magari non sembra, è un problema che non riguarda solo la coscienza di un Paese. Riguarda il peso che abbiamo, e soprattutto che dovremmo avere, nelle complicate trattative finanziarie che ci attendono al varco a Bruxelles e dintorni.
 
Specie in questo tempo sospeso, imboccato il ponte fragile tra il prima e il dopo Covid, vale la cruda verità annunciata per sempre da Marguerite Duras: «Si crede che quando una cosa finisce, un’altra ricomincia immediatamente. No. Tra le due cose, c’è lo scompiglio». Ecco, noi siamo proprio in quel punto, nello scompiglio, in ordine sparso. Se guardiamo giù, da un lato ci affacciamo sul precipizio di una crisi economica senza fondo, dall’altro si scorgono le sagome di un milione di senza lavoro precipitati in un buco nel quale rischiano di essere raggiunti da tanti altri disarcionati dal virus. A guidarci nell’incertezza, tra vaghi «piani di rinascita» (meglio sarebbe almeno cambiargli il nome, visto il passato piduista che evocano) e certezze di ripartenza, a cominciare dalla scuola, instabili come le assi su cui camminiamo, c’è un presidente del Consiglio indebolito dagli attacchi dentro e fuori la sua maggioranza e un pacchetto elettorale previsto per settembre che non gli agevola il comando. La speranza è il soccorso alpino dell’Europa, ma molto dipende dalla compattezza con cui ci presenteremo ai prossimi tavoli e dalla credibilità di nazione che riusciremo a esibire. E una piccola storia ignobile come quella di Patrick Zaki, gemella, speriamo non negli esiti, con la fine martoriata e mai spiegata di Giulio Regeni, rappresentano due ombre che non aiutano l’immagine di un Paese che dovrebbe fare rispettare, oltre al proprio onore, anche i propri cittadini, naturali o acquisiti che siano.


Rifugiarsi nella ragion di Stato è un comodo espediente per non dire che, oltre un po’ di innocuo baccano diplomatico (compreso il provvisorio ritiro del nostro ambasciatore dopo lo strazio di Regeni, ma dall’agosto 2017 ne è tornato un altro in sede), l’Egitto è un partner da maneggiare con cura sia per gli equilibri geopolitici nella zona sia perché è un più che discreto giacimento di affari. Oltre all’Eni, più di 130 aziende italiane ci lavorano con ottimo profitto (2 miliardi e mezzo di dollari di fatturato, commesse militari, due fregate della Fincantieri pronte ad essere vendute in loco).
Restano qui e là in Italia, per esempio sulla facciata di Palazzo Marino del comune di Milano, gli striscioni gialli con la scritta «Verità per Giulio Regeni». Bologna tutta, a cominciare dall’università dove non smettono di invocare il ritorno del loro compagno Zaki, è unita nella lotta, per quanto impari. Anche se, dopo quattro mesi, qualche segno di resa comincia a intravvedersi. Fino a una settimana fa, un murale con Patrick circondato dal filo spinato, opera di Gianluca Costantini, copriva un’intera facciata del Palazzo dei Notai, vicino a San Petronio. È stato sostituito con il poster di una banca. Un altro murale, questa volta a Roma, via Salaria, ambasciata d’Egitto, realizzato dallo street artist Laika, vede due bravi ragazzi col volto gentile e una barbetta ancora adolescenziale. Uno è Giulio Regeni che abbraccia sorridendo il compagno di sventura Patrick George Zaki e lo rassicura: «Stavolta andrà tutto bene». Stavolta, non come a lui. Tutto bene, nelle condizioni date, è davvero un atto di fede.

Carlo VERDELLI,
Corriere.it