lunedì 13 aprile 2020

Creativi



Fino a qualche settimana fa i cileni riempivano le strade di Santiago ogni venerdì per protestare contro l’aumento del costo della vita. A Hong Kong per otto mesi migliaia di persone hanno manifestato chiedendo più democrazia. A febbraio decine di migliaia di donne argentine sono scese in piazza appoggiando una proposta di legge per la legalizzazione dell’aborto. In India per mesi ci sono state proteste contro l’emendamento alla legge sulla cittadinanza che discrimina la comunità musulmana. In Iraq, in Libano e in Algeria fino a metà marzo c’erano grandi manifestazioni contro i rispettivi governi.
Tra gli effetti collaterali del covid-19 c’è quello di aver spento di colpo qualunque forma di protesta. Con grande sollievo per i regimi autoritari e i governi impopolari, ma non solo loro. Il sociologo francese Geoffroy de Lagasnerie parla di una “sottomissione nazionalista”: il sentimento di appartenenza a un corpo nazionale nei cui confronti ognuno sente di avere degli obblighi, con tutti i pericoli di scivolamento autoritario che ne derivano. L’emergenza di queste settimane fornisce il pretesto per alimentare il controllo sociale, rafforzare i poteri di polizia, ridurre al silenzio le voci critiche, mettere a rischio intere categorie di lavoratori in nome di un interesse nazionale.
La risposta a tutto questo non può che essere creativa e prevedere la sperimentazione di nuovi modi di esprimere il dissenso, come quelli suggeriti dal collettivo di artisti cileni Depresión intermedia che ha pubblicato su Instagram un manuale per protestare da casa; come quelli di milioni di brasiliani che hanno manifestato contro Bolsonaro battendo pentole e coperchi dai balconi di casa; come i quasi seicentomila israeliani che hanno seguito in diretta su Facebook una protesta contro Netanyahu; come Greta Thunberg, che ha spostato online il suo sciopero della scuola con l’hashtag #digitalstrike.

Questo articolo è uscito sul numero 1353 di Internazionale

È il momento di pensare al mondo che verrà


Le affascinanti fioriture primaverili di Zagabria hanno un’aria un po’ malinconica. In fondo stanno vivendo la prima primavera senza il loro pubblico abituale, il genere umano. In realtà forse ricorderemo la primavera del 2020 come il primo momento in cui la natura è appartenuta unicamente a se stessa. Solo alcuni passanti hanno notato i ciliegi in fiore nel giardino botanico chiuso al pubblico. Sfortunatamente siamo tutti troppo impegnati a trasformare radicalmente le nostre abitudini di vita nel tentativo di sopravvivere alla pandemia globale: facendo deviazioni quando passiamo vicino ad altre persone, mettendoci a un metro dall’altro quando aspettiamo al semaforo e chiedendoci nel frattempo se sopravvivremo a questo caos planetario.
Ogni volta che vedo persone che si baciano o che si toccano in un film sento un brivido lungo la schiena. Ogni volta che vedo un contatto umano affettuoso, che normalmente mi scalderebbe il cuore, mi sembra di vedere persone già morte. Il nostro cervello è sorprendentemente efficace nel riorganizzare le proprie abitudini, quando abbiamo paura. Il cervello è una materia plasmabile. Ma non ha un’elasticità illimitata, e quindi non è in grado di reinventarsi costantemente.
Se e quando arriverà il giorno in cui tutto questo sarà finito, probabilmente non sarà il momento del ritorno alla normalità. A quanto pare avremo una normalità nuova di zecca. E visto che siamo tutti a casa e abbiamo meno cose da fare, invece di ossessionarci con il conteggio dei morti o guardare video musicali fatti in casa, possiamo cominciare a immaginare il mondo che verrà. 

Nuovi problemi, nuove soluzioni
Viviamo in tempi segnati da un immenso cinismo, e dare voce a riflessioni simili è rischioso. Quasi ci preoccupiamo di suggerire soluzioni, perché sappiamo bene che qualsiasi idea rischia di venire subito soffocata con feroce sarcasmo. Tuttavia penso che le ultime settimane ci abbiano insegnato che, in quanto esseri umani, non possiamo più permetterci di comportarci come adolescenti volubili. È arrivato il momento di trovare una soluzione ai problemi che oggi ci riguardano, a costo di passare per degli ingenui idealisti.
È ormai qualche tempo che la storia ha avuto un’accelerazione. Il capitalismo si è praticamente disgregato, a causa di leader incapaci o autoritari, e la crisi climatica ci ha già fatto intravedere la tragica fine della storia del genere umano. La crisi dei rifugiati, con il suo epico fallimento morale globale, ci ha messo di fronte al fatto che la fine dell’umanità non ha bisogno di drammatiche apocalissi, ma può avvenire nella maniera più banale, come un reality show trasmesso in televisione. Stiamo tutti cercando di tenerci al passo con i caotici sviluppi politici e naturali, come se fossimo attori scaraventati in un film dell’orrore che vagano senza avere idea della sceneggiatura. Grazie al nuovo coronavirus quest’accelerazione ha raggiunto la sua velocità massima.
Due cambiamenti importanti stanno prendendo forma: la giustizia sociale è percepita come una cosa necessaria (semplicemente non vogliamo morire come vittime di un sistema sanitario pubblico senza risorse) e la scienza ha ritrovato il suo onore (non vogliamo morire in un mondo dominato dall’idiozia). Il genere umano sta finalmente accettando il fatto che, per sopravvivere, deve abbandonare l’avidità istituzionalizzata e seguire i fatti, la verità e la morale.

Dopo aver rifiutato la scienza e marginalizzato gli esperti con l’aiuto dei leader della destra populista di tutto il mondo, oggi il pianeta pende disperatamente dalle labbra di studiosi e medici. E tutta la battaglia, durata una generazione, per spiegare al genere umano che la disuguaglianza è una cosa idiota e, a lungo termine, insostenibile sta finalmente dando i suoi frutti. Alla fine gli abitanti della Terra si sono convinti che le cose non possono andare avanti così. Mio padre e mia madre sono entrambi socialdemocratici. L’altro giorno, prendendoli in giro, gli ho detto: “E quindi, alla fine, non sarà la lotta di classe, ma uno stupido virus a mettere fine al capitalismo”. Mio padre mi ha risposto con una battuta leninista: “Siamo ancora qui, no? Aspettavamo solo che i tempi fossero maturi”.
In questo momento le condizioni del mondo sono propizie: possono prevalere la razionalità, l’umanità e la salute mentale. La domanda è: in che modo dovremmo reinventare la solidarietà per ottenere il potere politico necessario a cambiare il pianeta? Come potremo restare in contatto l’uno con l’altro e con la realtà circostante mentre cerchiamo di dare una forma a questo mondo in cui il contatto fisico è vietato? Immagino che, grazie al distanziamento sociale, per la prima volta da generazioni, disponiamo del tempo sufficiente per pensare a delle soluzioni.

(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul numero 1352 di Internazionale

domenica 5 aprile 2020

Questo non è un uomo


E ritorna la domanda di chi sia l'uomo, non in astratto, ma chi sia questo uomo, l'uomo del millennio appena iniziato, che si presenta con segni drammatici e apocalittici. Un uomo che non sembra in grado di governare nemmeno gli strumenti che ha introdotto nella natura, incapace di uscire da logiche che egli stesso denuncia, ma che poi segue inconsapevolmente o forzatamente.
Un uomo dell'inutile, del tempo perduto. L'uomo soprattutto del potere che aspira ad avere cose e a soggiogare persone, fino a schiavizzare i propri figli e chi con lui divide la vita. Ammalato di successo, attento solo ad apparire. Un uomo che vorrebbe uccidere il dolore che non sopporta, poiché gli pone questioni la cui risposta va contro la forza, la potenza e soprattutto contro il bisogno di immortalità.

L'uomo del tempo presente ha maggiori capacità di agire, di fare. E per realizzare tutto quanto è possibile si è disancorato da qualsiasi regola, da ogni legge morale, ha cancellato i limiti per poter fare quanto vuole e per diventare potente, più potente di quanto non lo fossero il proprio padre e la propria madre. Oggi più potente di ieri, e domani più di oggi. Un uomo che, per esistere visibilmente, diventa un falsario, un fedifrago, un infedele, un incoerente e che subito trova una filosofia che fa della flessibilità una dote e della coerenza una malattia, una rinuncia al mercato dell'imporsi e dunque dell'esistere. Un uomo che considera la saggezza una triste modalità di rappresentare la propria incapacità a vivere in questo mondo, e il saggio chi nostalgicamente si rifugia in un angolo della terra e vive morto chiacchierando e facendo riferimenti ai significati dell'uomo, dell'uomo che perde, dell'uomo dell'emarginazione.
Un uomo attaccato solo al presente, che così cancella l'eterno e il senso o il dramma della morte, e riduce la vita a una serie di momenti, uno staccato dall'altro, ciascuno con un proprio non-senso.
Il significato del fare, del muoversi: stare fermi e magari pensare sa di fine, di incapacità a gestire la propria esistenza sul mercato della finzione. In teatro un attore non può stare immobile, diventerebbe una statua, un pezzo di arredamento di scena, non un protagonista. E allora si fa e solo dopo, semmai, si pensa a cosa ne è sortito, ben consapevoli che la risposta giusta è l'aumento del proprio potere rispetto a quello del giorno appena passato, rispetto alla storia a cui si è ancorati ma da cui bisogna togliersi con ogni mezzo e con ogni sistema.
Questo non è un uomo. Chi si sente eterno e ignora di poter morire fra un attimo, è un burattino ubriaco con l'effigie di uomo. La morte è attaccata addosso a ciascuno di noi, è confezionata con la vita, che appunto è un transito in attesa di venire sacrificati da un destino che è parte dello stesso esistere.
L'uomo è consapevole della morte, sa che deve morire e sa anche che lottare solo per accumulare cose, togliendole magari a chi non ha nulla, è stupidità, e se si chiama ricchezza, la ricchezza è semplicemente idiozia.
Chi si sente forte e ignora che basta un virus invisibile che si attacchi al torace e morsichi la radice di uno soltanto dei nervi intercostali per fiaccarlo e farlo piangere di dolore, non è un uomo, ma un esaltato, uno che delira, e il delirio è un'errata interpretazione del mondo.
Non è uomo chi violenta un bambino per una convulsione di piacere, perché un bambino ha bisogno di aiuto e la violenza lo lascerà per sempre nella paura. Questo non è un uomo.

Chi usa le proprie mani, che possono accarezzare, per dare invece sberle o per stringerle intorno al collo di un innocente, è un folle, un sadico: di umano ha solo le sembianze, questo non è un uomo. Chi non rispetta il proprio vicino ma lo sfrutta, chi prende vantaggio dalla sua ingenuità o dal suo amore, non è un uomo, perché l'uomo rispetta l'uomo e ha pietà per chi è in difficoltà, non cerca di trarne vantaggio.
Non è uomo chi pensa di essere perfetto, di appartenere a una razza superiore e colloca tutti gli altri nella pattumiera del mondo, e li massacra e li abbandona. I campi di concentramento oggi sono nelle strade, dove circolano uomini senza essere visti, considerati solo sterco.
Chi lascia morire un bambino che chiede solo di avere un po' di cibo, soltanto un po' di quello che viene buttato, non è un uomo. Chi fa la guerra per ottenere potere e paga la carne ammazzata con un monumento falso e ridicolo, non è un uomo.

Io non so dire chi sia e come debba essere l'uomo, il vero uomo, ma sono certo che chi uccide per il proprio potere non è un uomo. So per certo che chi odia il proprio vicino semplicemente perché non ha i colori alla moda, non è un uomo. So che un potente che vive sulla miseria di chi grida di dolore o di fame e di fame di dignità senza essere sentito, non è un uomo.
Non so chi sia l'uomo e come debba essere, ma sono sicuro che chi mostra un volto che non gli appartiene, usando strategie di falsità, non è un uomo. L'uomo che si atteggia a potente e ignora la propria fragilità, non è un uomo. Chi crede di essere onnipotente e sta per morire, non è un uomo. Chi chiude gli occhi davanti a un bambino che implora aiuto perché è solo, senza mamma e papà, non è un uomo. Sembrano uomini, ma non lo sono.

E il mondo ormai è pieno di non-uomini vestiti con l'abito dell'uomo; è pieno persino di sacerdoti che non credono in Dio, di donne che invece di diventare madri si vendono per comperare un abito con griffe.
Questo non è un uomo. Uno che non comprende il dolore di chi gli sta vicino o lo provoca per indebolirlo, che odia invece di capire, che non sa amare perché l'amore non è uno strumento di successo e allora mercanteggia i sentimenti, non è un uomo, anche se lo rappresenta, come in un teatro in cui si recitano parti e si fingono ruoli.
L'uomo è colui che dà un senso all'essere nel mondo, anche se non sa definirsi e se ogni definizione rimane avvolta dal mistero.
Ma non sono mistero l'onestà, la generosità, la sensibilità all'altro e ai suoi bisogni. Non è mistero la voglia di servire per poter essere a propria volta aiutato nel pericolo e nella disperazione. Non è mistero la solitudine: la sensazione attonita di vedere un deserto senza nessuno, e percepire che la propria voce si perde tra granelli di sabbia e tra il fischiar€ del vento. Chi non interrompe la solitudine di un uomo solo è fuori dall'umanità. Questo non è un uomo.
Provocare dolore che a differenza di quello del destino, potrebbe tacere, è fuori dell'umano.
Questo non è un uomo.

Fingere di non sentire chi piange sopraffatto da un male a cui non riesce a dare un senso e che ignora come possa e se possa finire, lasciarlo solo dentro il dolore e dentro la paura che aumenta, non è umano. Il dolore quando è gigantesco copre ogni pensiero e la dimensione dell'essere si fa dolore. E in questa catastrofe occorre che almeno un uomo vegli, sia presente, faccia sentire che il mondo è più vasto del proprio mondo fatto solo di dolore. Se tutti scappano per dedicarsi agli affari o ai propri piaceri, allora il mondo diventa una disgrazia e l'esistenza scompare non dentro il mistero, ma dentro il male, e tutto diventa male. Questo non è un uomo.
Perché uno si fermi vicino a un ammalato deve sapere di potersi ammalare. Deve conoscere il dolore fisico, quello esistenzià1e che insieme riducono la terra a un inferno. L'inferno non è frutto della fantasia di un poeta o di un artista che lo ha rappresentato, ma la cronaca del dolore su questa terra e del dolore dell'uomo. E le urla di dolore si confondono con l'orgia dionisiaca del piacere stolto.
Questo non è un uomo.

Guardo seduto sulle rive dell'oceano, qui a Inverkirkaig, i gabbiani, gli aironi, i cormorani e penso al male che possono fare a un altro gabbiano, a un altro airone o a un altro cormorano.
Mi sembrano incapaci di attenzioni raffinate e di carezze umane, ma anche incapaci di uccidere, di aggiungere dolore al dolore che un uccello di mare può provare.
Ho visto padri picchiare i propri figli perché piangevano dal dolore e disturbavano.
L'uomo del tempo presente mi appare un eccesso di violenza e di cattiveria, guidato dalla rabbia, incapace di dare senso ai propri gesti. Questo non è un uomo.
La fragilità non è all'origine della cattiveria e della volgarità. Non è la fonte del male. Anzi la percezione del proprio limite porta a considerare e a capire il limite degli altri.
La violenza è data dalla constatazione di non essere forti come si vorrebbe, dalla delusione di non avere ottenuto il successo a cui si pensava di aver diritto. Lo scarto tra il desiderio di potenza e la cronaca scatena la furia e le pulsioni che annientano, oltre alla vittima, anche la propria umanità, poiché questo non è un uomo.

L'uomo fragile non è mai violento.
C'è chi uccide ogni giorno e poi una volta salva una vita e lo fa per mostrare il coraggio e l'eccezionalità dei gesti. Questo non è un uomo.

È solo attraverso le piccole cose che si scopre l'uomo, nella comprensione di ogni giorno, nel poter guardare in viso l'altro da sé e coglierne i segni del dolore visibili in un'espressione che sa di fine, mentre si chiede inutilmente perché ancora dolore. Una domanda che rimanda alla paura.
Se non si conosce il perché del dolore, tutti i perché, di qualsivoglia origine, finiscono per disegnare un mondo di mostri, in cui si è vittima inconsapevole di un destino che è in mano all'ignoto. E allora l'uomo diventa un mostro guidato da un mistero fatto di mostri.
Perché la carne del vicino non ha mai pianto dal dolore? Perché io, perché non lui?
Il mistero, la fortuna, la colpa inventata.
Al dolore si associa la colpa, e al dolore del corpo, che gronda di piaghe, si aggiunge quello dell'esistere, dell'essere al mondo: il dolore diventa annuncio di morte.
E questi pensieri girano nella solitudine senza che nessuno sappia fermarli e riportarli in un contesto meno tragico. Tutti sono scappati e stanno coltivando la propria grandezza ignorando che la vita è dolore.
Il perché della vita, il perché della sofferenza, il perché di questi perché.
Il corpo si è fatto piaga, l'esistenza si è fatta piaga. E nessuno assiste a questa apocalisse di una vita, una vita che è passata nel dolore e scompare nel dolore senza che nessuno se ne sia accorto.
C'è un dolore talmente forte che persino i pensieri fanno male e ogni considerazione sanguina. La vita diventa un torrente insanguinato e ogni affermazione è dolorosa e produce dolore.
Non è possibile consolarsi se si è avvolti da questo mondo impaurito. Occorre che ci sia un uomo vicino che ricordi che anche dopo un temporale che ha sradicato un villaggio uscirà il sole e risplenderà la luce, e che gli uccelli cinguetteranno e la vita continuerà. Occorre un uomo che sappia cosa è il dolore perché ne è stato colpito e non ha dimenticato; un uomo con i nervi massacrati da un virus non può ritenersi dio onnipotente. Questo è un uomo, questo forse è l'uomo.
Chi conosce il dolore sa come stare con chi soffre. Chi sa soffrire, ma anche mostrare la luce laddove tutto si fa buio, perché la propria esperienza passata garantisce che il dolore passa.
L'uomo del dolore, l'uomo della fragilità, l'uomo della comprensione, l'uomo della consolazione. Questo è un uomo.

C'è un male inevitabile, o almeno così appare. Un male che forse domani sarà curato e prevenuto, ma che lascerà il posto a un altro che apparirà fuori dalle proprie possibilità di dominio. L'uomo vittima di un male fatale.
E poi c'è la morte: nel dolore immane appare come una salvezza, ma è segno della disperazione per cui la non-esistenza sembra sopportabile, mentre la vita dolente non lo è.
La morte è male poiché porta via senza sapere dove e perché, senza che si presenti con chiarezza, senza poter intravedere il senso di quel viaggio: forse verso il nulla, forse verso qualcosa che coinvolge ancora la coscienza di esserci. E allora la morte si fa spaventosa.
La morte come disastro, la morte come fine, certo anche del dolore, ma al tempo stesso della speranza, del desiderio. E l'immaginazione si chiude e sullo schermo si mostra una macchia nera. Nero su nero. E si muore senza che nessuno ti racconti cosa succede, senza che tuo padre, che è morto, sia venuto a dirti cosa sia, e lui non racconterebbe bugie. Per questo non risponde alle mie domande, ai tanti perché che vengono svelati negli inferi.
La morte è il più grande dei limiti dell'uomo. Il limite alle proprie possibilità transeunti, il limite all'arroganza, il limite al potere, al non-senso del potere.
La morte deve promuovere la voglia di comprendere l'altro, di conoscerlo, di poterlo aiutare. Ogni compagno di viaggio deve essere disposto a darsi a chi ne avesse necessità, sapendo che può accadere di averne altrettanto bisogno; e allora colui che si è aiutato in una occasione è lo stesso che ti aiuta quando ti senti incapace di far fronte alle tue difficoltà. E ogni difficoltà è già dolore senza un uomo che ti guardi e ti sorrida.
In questo mondo folle di fronte al dolore si tende a prescrivere un lenimento e non a dare un supporto di umanità. Una ricetta, invece che un sorriso. Una pasticca, invece che una stretta di mano.
Gli antidolorifici sono una grazia della scienza e si trovano in natura prima che nei laboratori, e aiutano a vivere, ma c'è un dolore che non risponde ai farmaci, a nessun farmaco: il dolore di vivere, quel male che sembra attaccarsi al respiro, all'esserci.
Painkiller pills, pillole per ammazzare il dolore. Una espressione che, anche se con violenza, mostra la forza sconvolgente del dolore che si impossessa dell'uomo e lo travolge, facendone un essere che non percepisce altro che il male.
Ma se il dolore si attacca alla vita, allora si placa solo con la morte. Non c'è pillola che uccida il dolore della malinconia, il dolore della colpa, il dolore di essere stato un non-uomo mentre si poteva appartenere al genere umano, anche se si tratta di un genere infelice.
C'è un dolore che l'uomo non riesce a uccidere, un dolore che si può togliere solo provocandosi la morte, che fa paura.
Uomo è certamente chi sa piangere e disperarsi, chi lancia grida di aiuto, chi mostra la propria fragilità e riferisce le proprie paure, chi canta inni di speranza e giunge persino a pregare un Signore che forse non c'è, ma che se ci fosse, sarebbe bene delegargli la propria inconsistenza, la propria insufficienza, i propri limiti.
Un uomo sa mostrare le proprie piaghe e descrivere il proprio dolore. Chiede aiuto perché un uomo solo non è un uomo. Ha bisogno dell'altro. È parte di un insieme e deve gridare al mondo che sta cercando chi si possa alleare con lui, almeno con un legame di amicizia. Deve dichiarare di avere bisogno, di avere necessità di vedere qualcuno attorno a sé, che gli presti attenzione. Un uomo è un bambino che, anche se adulto o vecchio, ha desiderio di chiamare la propria madre che non c'è più, di chiedere un seno dove potersi attaccare poiché è troppo fragile. L'uomo è un gigante che porta dentro di sé un bambino ed è bene che dica, che mostri che quella stazza gigantesca non deve intimorire poiché è piena di bontà, di voglia di essere amato, magari da un nano, da chi pensa di esser troppo piccolo per vivere ma può diventare necessario a un gigante. Questo è un uomo.
Un tempo insegnavano a nascondere le debolezze e pensavano che la fragilità fosse un segno di infelicità e di insuccesso. Uno stigma di chi soccombe rispetto ai forti, a chi non chiede mai, semmai dà e si impone su tutto e su tutti. Gli uomini vincenti, i giganti d'argilla che nascondono la fragilità che significa bisogno dell'altro, necessità di far parte di una coppia, di una famiglia allargata, di una società che emani calore. Questo non è un uomo.

Un uomo talvolta sente di dover pregare e non sa a chi rivolgersi.
Io prego mio padre che non c'è più, e gli chiedo aiuto quando mi pare di aver fallito e di essermi incamminato lungo una strada fatta di errori. E lui nel silenzio mi risponde, o forse semplicemente promuove la mia stessa risposta. Talora mi rivolgo anche a un Dio che forse non c'è. Grande, anche se non ci fosse. Talora l'uomo lo sfida, lo insulta nella sua onnipotenza, gli chiede ragione di quel dolore che l'ha colpito nel corpo, mentre sente ancora la paura di un male che poteva portare a morte, di un male che è già morte, un dolore di morte. Lo bestemmia, perché come Giobbe non capisce che cosa abbia mai fatto per meritare il castigo, un simile castigo.
E si chiede se sia un dio degno di questo nome o sia come tutti i potenti, che hanno forza ma non sanno amare, che giustiziano ma non capiscono e non stanno ad ascoltare le parole del dolore e di un dolore che è oltre la possibilità di sopportazione. Gli chiede quale piano malefico esista su di lui da meritare un male che fa perdere la dignità fino a condannare Dio.
Se si crede in un dio, allora non lo si può bestemmiare, mai. Se si crede, ci si deve comportare non come Giobbe, ma come Abramo che prende il proprio figlio Isacco e lo porta sul monte per sacrificarlo al Signore, poiché il Signore lo ha chiesto. Se si crede, anche la più sconvolgente e ingiusta delle richieste diventa accettabile, poiché può sfuggire al fedele ciò che è presente al proprio Padre celeste.
Il mio dio, che non c'è ma che prego, è un dio ingiusto e un dio potente.
E io non amo il potere, l'ho sempre sfuggito, e quando mi ci avvicinavo, sentivo un terrore che mi faceva scappare e mi riportava a iniziare una strada nuova lasciando quella che faceva intravedere il successo e l'encomio, che sono ancelle del potere.
Cerco un dio della fragilità, un dio minore che sappia capire e amare, ascoltare e aspettare vicino a me che temo la solitudine e il dolore, nel deserto, nel mio deserto. Un dio piccolo che aiuti con la propria paura, che affermi che questo mondo è malato e quest'uomo non è un uomo. Questo è Dio.
Il dio dei potenti, il re dei re, è freddo, irritabile, tremendo. Genera paura, non quiete. Mi terrorizza, non lenisce il mio tremore. Mi fa sentire indegno, perché la mia dignità si lega alla mia fragilità.
Sono un uomo di vetro non di ferro e ho bisogno di un dio fatto di un vetro ancora più sottile e che può infrangersi al solo batter di vento. Il dio forte è più fragile di ogni uomo, un campione di forza nella fragilità. Questo è Dio.

Non posso condividere lo stesso dio dei despoti, di chi non mi vede e non mi sente quando piagato mostro il mio costato tappezzato di macchie di dolore. Voglio un dio che abbia paura della morte anche se è eterno, perché la morte atterrisce tutti. È la più grande disgrazia della storia e della terra.
Non voglio un dio che si erga nella giustizia assoluta, nella potenza illimitata, nella intelligenza somma e perfetta, tanto da non essere perfettibile. Sarebbe un dio che non conosce i sentimenti, l'angoscia dell'errore, la voglia di accarezzare mentre si produce un lamento di dolore.
Mi ritorna alla mente continuamente la figura del Cristo. È certo l'immagine di dio che più si avvicina alla mia paura e alla mia fragilità. Ha pianto, ha rimproverato il Dio che è nei cieli, ha sofferto sulla croce, è stato insultato, ha agito nella impotenza e nella fragilità ed è morto di fragilità.
Sembra troppo umano per essere un dio.
Un dio poveretto, lasciato solo nel Getsemani mentre suda sangue e si sente abbandonato.
L'abbandono è la peggiore delle solitudini poiché non si lega a una dimenticanza, ma a un rifiuto consapevole.
Cristo, un grande uomo che meriterebbe di essere Dio, ma gli ebrei che sono il popolo eletto da Jahvé non lo riconoscono: non può essere un capo, un padre. E non può essere dio chi piange e si lamenta.
Ecco il mio dio, il dio per l'uomo, ma forse è semplicemente un uomo, non un dio.
Questo è un uomo.




Vittorino Andreoli
L'uomo di vetro,
la forza della fragilità
(Rizzoli, 2008)