giovedì 14 maggio 2020

Glifosato probabile fattore di rischio per il Parkinson

I sospetti restano. E si fanno, man mano che passa il tempo, sempre più fondati. Almeno nella comunità scientifica l’ipotesi che il glifosato sia tra le cause probabili del morbo di Parkinson trova nuove evidenze. Nel silenzio colpevole delle due grandi autorità pubbliche al di qua e al di là dell’Oceano – Epa ed Efsa sembrano del tutto cieche di fronte alle pesanti ombre sul pesticida più usato nella storia dell’umanità – gli indizi assumono la forma di prove.

L’ultimo lavoro è pubblicato su Neuroscience letters del 7 maggio e firmato da una équipe di ricercatori dell’Università giapponese di Chiba. Vale la pena leggere la conclusione dell’abstract per tentare di comprenderne gli esiti: “Questo studio suggerisce che l’esposizione al glifosato potrebbe esacerbare la neurotossicità dopaminergica indotta da MPTP nello striato e nel SNr di topi adulti”. Un linguaggio da addetti ai lavori che però viene sciolto senza possibilità di equivoci con la frase successiva: “È probabile che l’esposizione al glifosato possa essere un fattore di rischio ambientale per il morbo di Parkinson, poiché il glifosato è stato ampiamente utilizzato nel mondo”.

Non è la prima evidenza in tal senso. E probabilmente non sarà l’ultima. Poco più di un mese fa aveva fatto rumore l’indagine del gruppo di ricerca guidato da Mariah Caballero che aveva incrociato le mappe sull’uso dei pesticidi del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti e i dati dei decessi del Dipartimento della Sanità di Washington. In alcuni casi, i ricercatori avevano scoperto che le persone che vivono entro 1 km da un’area irrorata da glifosato avevano circa un terzo in più di probabilità di morire di morbo di Parkinson prima di raggiungere i 75 anni.
In quel caso la ricerca era stata firmata dal Community Health and Spidial Epidemiology Lab della Washington State University e pubblicata sull’International Journal of Environmental Research and Public Health.
“Non siamo in grado di affermare che ci sia un nesso di causalità”, avevano spiegato gli scienziati, affrettandosi ad aggiungere “Stiamo solo osservando e vedendo una relazione. C’è bisogno di indagare di più”.
Ora le evidenze sembrano esserci. Ma c’è da giurare che all’Autorità europea per la sicurezza alimentare e a quella (ben più sdraiata sugli interessi industriali) per la Protezione ambientale statunitense, non basteranno. Volete scommetterci?

Riccardo Quintili
IlSalvagente.it

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