sabato 25 maggio 2013

Capaci, 21 anni dopo

Il 23 maggio 1992 qualcuno trasformò un'azione di vendetta mafiosa in un atto di brutale manifestazione politica, cioè in una strage. Il "doppio livello" dello stragismo e dell'omicidio politico ha garantito l'impunità ai mandanti, lasciando i processi irrisolti e un Paese in cerca di verità

"La strage di Capaci è al 90% di mafia, il resto lo hanno messo altri, per quella di via D'Amelio siamo 50 e 50 e per le stragi sul continente la percentuale mafiosa scende vertiginosamente".
Luca Cianferoni, avvocato di Toto' Riina, 2010.

La strage di Capaci non fu opera solo degli uomini di Toto Riina: ormai si può affermare questa verità oltre ogni ragionevole dubbio.
Un uomo della Gladio siciliana mi ha parlato concretamente di un "doppio livello" nella strage di Capaci. Lo incontrai nel maggio del 2010 e durante una lunga conversazione mi disse: "non penserà mica che fu opera soltanto di quattro mafiosi?". Qualche anno prima il boss Giovanni Brusca, l'uomo che schiacciò il telecomando appostato sulla collinetta a ridosso della strada, aveva ribadito, tanto tempo dopo, la sua incredulità per il "successo" dell'assalto. Disse così al magistrato Luca Tescaroli: "Quattro stupidi...quattro stupidi, perché poi alla fine eravamo...un po' di persone, in maniera molto rozza...in maniera artigianale, siamo riusciti a portare a termine un attentato così importante". Non poteva ancora crederci che avevano fatto tutto da soli.
L'agguato teso all'auto di Giovanni Falcone, tecnicamente un'imboscata, fu realizzato in un teatro di guerra allestito dai migliori artificieri. Fu una operazione militare, un atto di strategia della tensione: una mano fu mafiosa, l'altra no. Qualcuno trasformò un'azione di vendetta mafiosa in un atto di brutale manifestazione politica, cioè in una strage. Partecipò a tutte le fasi organizzative dell'azione anche Pietro Rampulla, il mafioso addestrato da Ordine nuovo, il servizio segreto clandestino di stampo neofascista: ma il 23 maggio non poté stare al fianco dei suoi complici perché "aveva impegni familiari", sfilandosi così dalla scena e mandando Brusca a schiacciare il telecomando.

Dobbiamo ricordare che dalle numerose e diverse dichiarazioni dei pentiti non è possibile stabilire il momento dell'ideazione di quel tipo di strage. Come si arrivò alla decisione di fare una strage per ammazzare Falcone? La trappola mortale contro il nemico storico di Cosa nostra era già pronta prima del 23 maggio 1992. Un gruppo di fuoco composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani nel febbraio del 1992 era stato inviato a Roma per fare fuoco su Giovanni Falcone con le armi tradizionali: niente esplosivo, niente botti, solo i proiettili mafiosi avrebbero dovuto abbattere l'uomo che più di tutti aveva penetrato i segreti dei boss e scardinato il loro tradizionale assetto di potere. Ma un giorno Salvatore Biondino, il luogotenente di Toto Riina, va ad incontrare Francesco Cancemi e Raffaele Ganci al cantiere di Piazza Principe di Camporeale e gli comunica che il padrino aveva intenzione di passare all'esecuzione del progetto di uccidere il magistrato con un ordigno esplosivo lungo l'autostrada da Punta Raisi per Palermo. Dunque, tutto era stato attentamente preordinato. Il momento dell'ideazione del progetto criminale di Capaci viene solo comunicato alle famiglie che poi avrebbero cooperato per realizzarlo; ma nessuno tra tutti coloro che lo attuano può raccontare il momento in cui viene elaborata quell'idea così originale e senza precedenti del delitto, e questo semplicemente perché l'idea gli viene suggerita dall'estero. Dice sempre Giovanni Brusca, l'uomo del telecomando, che il posto dove fare l'attentato "non l'ha scelto lui". Sostiene che in una riunione a casa di Girolamo Guddo, il 20 febbraio prima della strage, scopre che "Cancemi, Salvatore Biondino, Raffaele Ganci avevano parlato della possibilità dell'autostrada". Non sa che Cancemi e Ganci, come tutti gli altri, avevano solo ricevuto le istruzioni per realizzare l'attentato in quel modo. Ma il "suggeritore" non si sa chi sia e che gente frequenti.

Ci sono poi strani oggetti sulla scena del crimine: un sacchetto di carta di colore bianco che conteneva una torcia a pile, un tubetto di alluminio con del mastice di marca Arexons e due guanti in lattice, evidentemente usati. Chi li aveva usati? E per fare cosa? I giudici scrivono considerazioni molto interessanti: innanzitutto, notano che quelle cose non possono essere state lasciate lì dal giorno in cui sicuramente tutto fu predisposto e ultimato (e dopo il quale i mafiosi non tornarono , l'8 di maggio, perché "sicuramente le intemperie, frequenti in quel periodo sulla zona, avrebbero determinato la lacerazione del contenitore, che lo si deve ricordare, era di carta". Dunque, non potevano essere strumenti impiegati dai killer della mafia. Secondo loro è proprio "da escludere che gli imputati (...) avessero lasciato quegli oggetti proprio in prossimità del cunicolo, perché si sarebbe trattato di una macroscopica distrazione, inconcepibile a fronte dell'emergere dalla descrizione di tutte le operazioni che si sono via via susseguite nel corso dei preparativi, di una meticolosa e puntuale cura nell'evitare che potessero restare tracce delle azioni compiute".

Il ritrovamento di questi oggetti particolari, lasciati lì sicuramente nelle ore di poco precedenti l'esplosione, è molto importante se si considera un'altra strana circostanza: alcuni testimoni hanno denunciato che il giorno precedente proprio nell'area della strage, ma a livello della strada, non in quello sottostante dove erano state condotte le operazioni di caricamento del cunicolo, era stato notato un furgone Ducato di colore bianco e alcune persone che apparentemente erano concentrate ad eseguire dei lavori. Fu anche deviato il corso delle automobili di passaggio, furono usati birilli per spartire il traffico. Lo hanno spiegato i testimoni indicati con i numeri d'ordine 26 e 27 e il loro racconto si riferisce a ciò che vedono il 22 maggio 1992, intorno alle ore 12: ma per Brusca e compagnia non c'è alcuna necessità di lavorare lungo la corsia, il loro lavoro si era concentrato a livello dell'imbocco del cunicolo, al di sotto nel livello stradale. E poi loro erano pronti già da tempo. Per di più, fu subito accertato che in quei giorni non erano in corso lavori di nessun genere e perciò si deve sicuramente escludere qualsiasi attività di manutenzione stradale, ordinaria o straordinaria: in pratica ci fu "un secondo cantiere, senza volto né nomi" e tuttavia anch'esso attivato con ogni probabilità per provocare la strage.

E ancora, l'esplosivo. Anche qui i conti non tornano. Sono state ritrovate tracce di nitroglicerina, un componente che non fa parte di nessuna delle due componenti che costituiscono la carica: ma la nitroglicerina rafforza la detonabilità della carica. L'esplosivo con cui è stato riempito il cunicolo che passava sotto l'autostrada in prossimità di Capaci era di due tipi: c'era l'ANFO, vale a dire il Nitrato di Ammonio addizionato a cherosene - in alcuni bidoncini fu messo allo stato puro - e c'era poi il tritolo, procurato da Biondino e recuperato dalle mine giacenti sotto il mare che venivamo trovate in grandi quantità dai pescatori, secondo una modalità raccontata minuziosamente da Gaspare Spatuzza (un racconto proprio identifico a quello del pentito di Piazza Fontana, Carlo Digilio, sull'esplosivo usato per la strage del '69!). Le indagini non si sono mai concluse: nel novembre del 2012 è stato arrestato Cosimo D'Amato, il pescatore di Santa Flavia che oltre al pesce tirava su anche le vecchie bombe. D'Amato è stato accusato dalla procura di Firenze di aver fornito in modo continuativo l'esplosivo usato per le stragi del '93, almeno quella parte proveniente dai recuperi in mare. Perché le vie degli esplosivi erano diverse: c'era quello da cava e poi quello più sofisticato, come il Semtex, proveniente dai traffici internazionali. Oltra alle tracce di nitroglicerina, ci sono poi quelle di T4, un esplosivo noto anche con RDX utilizzato soprattutto per scopi militari, che nel cratere di Capaci non viene unito ad altre sostanze e che potrebbe essere stato usato per aumentare la detonabilità della carica o come legante esplosivo fra le frazioni di carica. Inizialmente si era pensato che il T4 fosse presente unito al tritolo con cui può formare un composto chiamato Compound B ma poi l'ipotesi è stata scartata perché il tritolo, come abbiamo detto, era stato sicuramente messo da solo nei bidoncini: in pratica, l'uso del T4 sembrerebbe essere stato aggiunto all'esplosivo trovato dai due gruppi di mafiosi per rendere più micidiale la carica. Sia la pentrite che il T4 sono, infatti, sostanze non compatibili con quelle descritte dai pentiti con le quali è stato riempito il cunicolo.
Con quel materiale in più, la strage era assicurata. Falcone sarebbe morto sicuramente.
Ci spingemmo su "un terreno che non era il nostro", raccontò poi a proposito delle stragi di mafia il pentito Gaspare Spatuzza. Era il terreno del doppio livello quello che si realizza quando siedono ad uno stesso tavolo entità diverse, interessate a cooperare ad uno stesso identico progetto criminale con scopi spesso diversi.

Nel "doppio livello" c'è la regia degli eventi politici, quella che non siamo mai riusciti ad afferrare. Il "doppio livello" dello stragismo e dell'omicidio politico ha garantito l'impunità ai mandanti, lasciando sempre l'opinione pubblica smarrita e confusa, irrisolti i processi giudiziari e un Paese da sempre in cerca delle sue verità. Nelle cospirazioni nate in quel modo, per essere cioè realizzate con l'apporto di mani diverse, la trama diventa impossibile da sbrogliare, la complicità finale di tutti permette di lasciare il delitto senza una apparente firma e l'esecutore, che sia il neofascista degli anni 70 o il boss mafioso della fine dello scorso secolo, si trova coinvolto in un'azione attentamente progettata sulla base di tante informazioni, come sanno fare i servizi segreti o tutte quelle agenzie affini, tanto che non potrà mai provare la sua estraneità. Se non vuole ammettere di essere stato manipolato, deve solo tacere e pagare
Stefania Limiti,
Cado in piedi - La comunità degli autori

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