domenica 3 febbraio 2013

Acqua: Consiglio di Stato boccia le bollette, aumenti non coerenti con referendum


Saranno restituite ai cittadini le cifre legate ai maggiori esborsi pagati tra il 21 luglioe il 31 dicembre 2011. Forum dei movimenti per l'acqua: "Abbiamo vinto"

Toccherà ora all'Autorità per l'energia decidere il criterio per rimborsare ai cittadini le cifre in più pagate e, a quanto pare, è probabile che invece del conguaglio, ci sarà una restituzione secca. "Abbiamo vinto, non si possono fare profitti sull'acqua - afferma il Forum dei movimenti per l'acqua commentando il parere -. Questa volta a darci ragione è il parere del Consiglio di Stato sulla tariffa: le bollette che i gestori consegnano ai cittadini sono illegittimamente gonfiate e non rispettano la volontà referendaria espressa da 27 milioni di persone". L'Autorità per l'energia "incaricata di formulare la nuova tariffa all'indomani del Referendum, aveva chiesto un parere al Consiglio di Stato sulla remunerazione del capitale investito, ovvero il profitto garantito del 7% presente nelle bollette". La risposta ha confermato "quanto precedentemente affermato dalla Corte Costituzionale: dal 21 luglio 2011, data di proclamazione della vittoria referendaria, la remunerazione del capitale investito doveva cessare di essere calcolata in bolletta". Per questo "quello che i cittadini hanno pagato è illegittimo e i soggetti gestori non hanno più alibi: devono ricalibrare le bollette". Quanto scritto dal Consiglio di Stato - osserva ancora il Forum - "delegittima le scelte che hanno guidato l'Authority nella formulazione della nuova tariffa, emessa un mese fa, in cui la remunerazione del capitale investito viene reintrodotta sotto mentite spoglie".

La guerriglia dell’acqua

di Stefano Rodotà, da Repubblica, 31 gennaio 2013

Sarebbe opportuno che, impegnati troppo spesso in tenzoni sul nulla o in scambi di contumelie, i partecipanti alla campagna elettorale diano pure un’occhiata a un parere del Consiglio di Stato appena pubblicato, che riguarda la fissazione delle tariffe del servizio idrico. Si tratta di un nuovo episodio della lunga guerriglia ingaggiata dai molti interessati che cercano di cancellare i risultati dei referendum del 12 e 13 giugno del 2011, quando ventisette milioni di cittadini dissero no alla privatizzazione forzata dell’acqua e al criterio della «adeguatezza della remunerazione del capitale investito». Venivano allora poste le basi perché l’acqua potesse essere concretamente attratta nella categoria dei «beni comuni».
Nella discussione pubblica irrompeva così un grande e ineludibile tema, rispetto al quale vi sono impegnative prese di posizione internazionali, prima tra tutte quella dell’Assemblea generale dell’Onu che ha definito l’accesso all’acqua un «diritto fondamentale di ogni persona ». Ma una interessata disattenzione ha fatto distogliere lo sguardo della politica da una questione di tanto rilievo, lasciando il campo libero a disinvolte scorrerie, a manovre antireferendarie.

L’obbligo dell’integrale rispetto dei risultati dei referendum era stato ribadito con particolare chiarezza da una importantissima sentenza della Corte costituzionale del luglio dell’anno scorso. Ora il Consiglio di Stato si muove nella medesima direzione. Il suo parere, tecnicamente assai bene costruito, era stato richiesto dall’Autorità dell’energia elettrica e del gas, alla quale spetta appunto il compito di fissare le tariffe. L’Autorità sosteneva che gli effetti del referendum non fossero immediati, sì che i gestori dei servizi idrici avrebbero potuto continuare a ricevere una remunerazione del 7% anche dopo il 21 luglio 2011, data indicata dal decreto che proclamava i risultati referendari. Contro questa pretesa si era mosso il movimento per l’acqua pubblica, con una campagna di “obbedienza civile” che invitava i cittadini a non versare quella parte della tariffa cancellata dal loro voto. Ora il Consiglio di Stato conferma la giustezza di questa tesi, sì che i gestori non potranno trattenere quello che hanno incassato illegittimamente.
Le acrobazie dialettiche dell’Autorità sono state spazzate via con una severa lezione basata su precisi richiami a quali siano gli effetti complessivi dei referendum, che potevano essere facilmente desunti da altre precedenti sentenze della Corte costituzionale, sì che l’atteggiamento finora tenuto dall’Autorità non può essere in alcun modo giustificato. Risulta evidente anzi, che essa non ha adempiuto alla funzione di garanzia che le compete.

Ma la guerriglia non è finita perché, con nuove acrobazie e forzature delle norme, sempre l’Autorità dell’energia elettrica e del gas ha fissato un nuovo sistema tariffario che, battezzandola come «costo della risorsa finanziaria», reintroduce proprio quella remunerazione del capitale del 7% cancellata dal referendum. Questa delibera verrà impugnata dal movimento per l’acqua pubblica e, dopo il parere di ieri, è presumibile che ne venga dichiarata l’illegittimità. Ma è ammissibile il comportamento di una Autorità che gioca la sua partita contro la volontà dei cittadini?
Il richiamo iniziale alla campagna elettorale e ai suoi protagonisti, allora, è tutt’altro che retorico, o d’occasione. Nelle pieghe del dibattito compaiono generici riferimenti ai beni comuni e dichiarazioni che, all’opposto, disconoscono proprio il risultato referendario, definendolo, con improntitudine pari all’ignoranza, solo una «indicazione ». È indispensabile che si esca dalla genericità e si avvii una discussione in primo luogo rispettosa della legalità, dunque dei risultati referendari, che non lasciano spazio a rivincite più o meno interessate. Questi risultati devono essere poi inquadrati in un contesto generale che riguardi, da una parte, una revisione generale della disciplina della proprietà pubblica, dando spazio adeguato alla nuova categoria dei beni comuni. E, d’altra parte, consideri l’insieme dei servizi pubblici in un’ottica costituzionale. Non dimentichiamo che l’articolo 43 della Costituzione italiana prevede che la gestione dei «servizi pubblici essenziali » possa essere affidata, oltre che allo Stato e ad enti pubblici, anche «a comunità di lavoratori o di utenti». Una linea, questa, riecheggiata dall’articolo 36 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dove si «riconosce e rispetta l’accesso ai servizi d’interesse economico generale».

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