giovedì 15 dicembre 2011

Riflessioni di un antieconomico


Tutti, da Monti a Berlusconi a Prodi, dalla Confindustria ai sindacati, dai neoliberisti ai neokeynesisti, invocano la crescita. Un mantra, un dogma ossessionate, “il mito fondativo – scrive Franco Cassano in La mitezza del male, Laterza, 2011 – dell’ordine simbolico e dell’immaginario della modernità”. Il rimedio universale alle crisi (finanziaria, produttiva, occupazionale, ambientale, climatica, energetica, alimentare, idrica… sistemica) è la crescita economica. Le differenze tra i diversi attori politici è sul come ottenerla, non sulla sua necessità.  Ma domandiamoci cosa significa crescita oggi, nel contesto del market system, dei modi di produzione capitalistici e della competizione senza frontiere.
Semplice: crescita significa aumentare il volume di denaro in circolazione da spendere poi per salari, investimenti, servizi. Vale a dire, il fantomatico Pil. Il denominatore con cui si misura deficit e debito e ogni altra performance economica. L’usuale indicatore del benessere secondo politici ed economisti.
I modi per ottenere la crescita dei flussi monetari in circolazione sono tre (non mi pare ce ne siano altri, ma sono pronto a imparare nuovi giochi di prestigio dagli economisti): aumentare la produzione di merci commerciabili, stampare moneta, ottenere prestiti. Per un paese periferico come l’Italia temo che tutte tre queste strade siano precluse, che non vi siano più margini di manovra. Per le aziende, produrre sempre di più a prezzi sempre più bassi significherebbe vincere la competizione con le “fabbriche del mondo” low cost di Cindia, da una parte, e con i giganteschi complessi industriali e militari che più investono nell’innovazione tecnologica e nella ricerca scientifica, dall’altra.
Creare artificialmente liquidità (come fanno Stati Uniti e Gran Bretagna) non è possibile perché, banalmente, non disponiamo più di una moneta e, se lo facesse l’Unione Europea per noi con l’euro, la sua “divisa” verrebbe inevitabilmente svalutata nelle transazioni internazionali. L’ultima strada, l’indebitamento, ovvero quella percorsa fino ad oggi, non ci è più consentita, semplicemente perché non c’è più nessun “investitore” disposto a prestarci denari se non a interessi usurai e chiedendo in pegno cespiti quali i beni demaniali, la gestione dei servizi pubblici e qualsiasi altro “gioiello di famiglia” ancora non privatizzato.
Mi domando, domandiamoci: vale la pena far lavorare di più e più a lungo un numero sempre minore di persone per meno salario e con meno diritti, lasciando senza lavoro i giovani, indebitando chi verrà dopo di noi per generazioni e svendere i patrimoni pubblici per cercare di inseguire la crescita? Cerco di farmi capire dagli economisti usando il loro linguaggio: il calcolo dei costi/benefici generati dalla spirale debito/sacrifici/crescita è palesemente negativo, contro produttivo e peggiora le condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione. Perseverare nel progetto della crescita economica, cioè nel tentativo di aumentare i flussi monetari dentro questo sistema di mercato, è mera follia devastante, autodistruttiva.
Il tema, quindi, dovrebbe essere non come inseguire la chimera della crescita, ma come prendere atto con realismo e umiltà che siamo già entrati nella post growth economy, in una economia-dopo-la-crescita, che non saranno mai più possibili incrementi esponenziali permanenti (un tot all’anno) del Pil. Chi ce lo fa credere ci inganna sapendo di mentire. Tenta solamente di tenerci soggiogati, di spremerci fino all’ultimo centesimo. Il dramma sociale della Grecia, con 100 mila aziende chiuse e un aumento del 40 per cento dei suicidi nel primo semestre del 2011 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, funziona da monito.
Non c’è possibilità di reversione in una economia governata dalle logiche dei mercati finanziari. Da trent’anni siamo entrati nell’economia del debito che si basa sulla anticipazione di flussi di cassa immaginari, ipotetici ma irrealizzabili. Nel “primo mondo” atlantico, i rendimenti finanziari superano quelli realizzati nell’economia reale. Le rendite superano e surrogano i profitti. Scrive Maurizio Lazzarato (La fabrique de l’homme endetté. Essai sur le candition néolibérale. Editions Amsterdam, 2001. Traduzione in “Alfabeta2”, n.15) che il capitalismo finanziario, il sistema del credito è una vera e propria fabbrica dell’uomo indebitato: “La successione delle crisi finanziarie ha fatto emergere violentemente una figura soggettiva che era già presente, ma che occupa ormai l’insieme dello spazio pubblico: l’uomo debitore”. 
Il governo attraverso il ricatto del debito (onora i tuoi impegni o perderai tutto) crea dipendenza, intossica la società e funziona come dispositivo di schiavizzazione.. Le élites al potere economico-finanziario sono così in grado di dettare la loro legge ai parlamenti: remunerare i capitali, pagare i possessori dei titoli del debito, gli investitori, i proprietari dei capitali finanziari.
L’estorsione del valore del lavoro non avviene più fabbrica per fabbrica, ma attraverso il gigantesco, planetario gioco dei mercati obbligazionari: il “Grande Creditore Universale” che manovra un flusso di denaro dalle 8 alle 12 volte maggiore del Pil mondiale. Le regole si sono rovesciate: sono i crediti a fare i depositi; è la moneta (in eccesso) che drena il risparmio.
Tutti siamo diventati debitori, anche chi non ha il mutuo o non usa la carta di credito, a causa del  debito pubblico contratto dallo Stato, dal Comune, dall’istituto di previdenza, dalla azienda municipalizzata, dalla azienda sanitaria, dalla scuola dove va a studiare il figlio e così via. O paghi (riduzione dei salari, delle pensioni e tagli al welfare) o default; niente lavoro, niente servizi. Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia insieme devono al resto del mondo 3.000 miliardi di euro. Solo l’Italia dovrà vendere più di 30 miliardi di euro di nuovi titoli di stato entro la fine di gennaio per rifinanziare i propri debiti. Non c’è nessuna crescita che possa ripagare questi debiti.
E’ giusto mettere in discussione il rapporto di forza e di potere asimmetrico creditore/debitore (audit e rinegoziazione con congelamento dei debiti,  moratoria dei rimborsi, “default controllato”, titoli sovrani riallocati nelle riserve bancarie ope legis, ecc.) fino a rivendicare il “diritto all’insolvenza” a fronte della esosità dei creditori e gridare – come fanno i movimenti degli indignati in tutto il mondo – “non paghiamo noi i vostri debiti”. Ma serve anche mettere in campo una idea di società post-crescita e post-debito, che possa cioè fare a meno di indebitarsi per investire, per produrre, per lavorare, per usufruire di servizi.
Una società che riesca a liberarsi definitivamente dagli strozzini, dall’intermediazione finanziaria parassitaria priva di scrupoli e di rischi è una società che riesce a superare l’economia debitoria. Una società che riconosca anche nel denaro un bene comune, un bene strumentale neutro. La moneta deve tornare ad essere un mezzo tecnico di servizio utile a facilitare gli scambi equi e fiduciari tra le persone, non una merce con cui ci si possa arricchire ai danni dei produttori. Una società in cui anche i mercati tornino ad essere costruzioni sociali, non templi della religione del dio denaro, nient’affatto “liberi” e meno che mai “naturali”. Vanno sottoposti continuamente a regole che ne finalizzino la funzione al bene delle popolazioni, non il contrario.
Non è vero che non esistono alternative. Forme e modalità di relazioni economiche alternative, fuori mercato, possono essere pensate e già ve ne sono. Basti pensare al lavoro domestico e di cura, all’economia informale in tanta parte del sud del mondo e all’autoproduzione, agli ecosystem service che ci vengono donati gratuitamente dalla natura, alla fruizione collettiva, condivisa e compartecipe dei beni comuni. Serve un benessere senza crescita, un’economia del bastevole che sappia soddisfare i bisogni e i desideri di ciascuno con ciò che si ha a disposizione, senza l’assillo dell’accumulazione, dell’accaparramento delle risorse, senza cadere nelle fauci dei detentori dei titoli di credito.

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